ROMA – Chi, accingendosi a governare uno stato,una regione,una città, decida di non attingere i suoi collaboratori principali dall’esercito dei politici di professione o di quanti hanno fatto della politica il proprio mestiere, ma decida di rivolgersi al mercato dei cittadini, “esperti” o “tecnici“, deve confrontarsi con un dilemma di non facile soluzione. La scelta di ministri o assessori “politici” presenta un importante vantaggio, compensato però da un grave svantaggio. Il politico di professione, non avendone quasi mai un’altra e vedendo nel nuovo incarico un’occasione di ascesa nella carriera che si è ripromesso di seguire, in genere sarà disponibile a tempo pieno.
Il suo impegno – se ben speso – gli potrà infatti conquistare consensi e costruire alleanze che si riveleranno indispensabili nel percorso successivo. Non è detto che quell’impegno sia sempre determinato dall’interesse pubblico, ma è ragionevole attendersi dal prescelto assiduità e presenza continuativa, incompatibili con lo svolgimento professionale di altre attività. La stessa retribuzione, pur non particolarmente elevata, può costituire un obiettivo appetibile per chi non svolga altri lavori redditizi. Lo svantaggio – dal punto di vista di chi sceglie il collaboratore “politico” – è rappresentato dalla minore indipendenza di quella scelta, condizionata quasi sempre dagli schieramenti, dalle alleanze, dalle “quote”, dalle dinamiche interne ai partiti che hanno il monopolio della politica.
Chi, sindaco, governatore o capo del governo, accetta di circondarsi di una “squadra” composta da politici, deve quasi sempre accettare anche questo condizionamento, che gli piaccia oppure no.
Non solo: egli dovrà aspettarsi che l’intensità della collaborazione e la fedeltà alla “squadra” siano continuamente condizionate dall’appartenenza a una forza politica. La scelta di ministri o assessori non politici, ma – per semplificare – “tecnici” , comporta un vantaggio e un corrispondente svantaggio, speculari a quelli della scelta “politica”. Il vantaggio è costituito dalla maggiore libertà e autonomia ( libertà e autonomia sempre relative, perché anche per individuare il tecnico “giusto” ci si dovrà muovere in base a valutazioni esterne che sfuggono a colui che deve decidere la nomina: si tratti di amici, cacciatori di teste, promotori non sempre disinteressati). Il vero vantaggio – oltre a quello della competenza specifica – consiste nell’interruzione del circuito politico e nella maggiore autonomia rispetto al sistema dei partiti.
Ma, inconveniente non da poco , questa maggiore autonomia e questa maggiore competenza si scontrano in molti casi con la circostanza che il prescelto, essendo un professionista o un “tecnico”, ha già una posizione professionale che si è costruito faticosamente, alla quale si presume tornerà una volta conclusa l’esperienza di governo, nazionale o locale; una posizione che gli procura – trattandosi, si presume ,di una figura di particolare capacità e autorevolezza – guadagni certamente superiori a quelli assicuratigli dalla pur prestigiosa nomina a un incarico pubblico.
Non solo: questo incarico ha sempre una scadenza, al cui verificarsi l’interessato dovrò misurarsi con la necessità e il rischio del reinserimento nel precedente ambito di lavoro. Questo comporta e giustifica la tendenza a continuare a riservare una parte non irrilevante della propria disponibilità e anche della propria passione all’attività che sino ad allora lo aveva occupato interamente. Non si tratterà di una incontenibile pulsione per l’accumulo degli incarichi, ma – piuttosto – del più che ragionevole desiderio di non venir meno alla propria vocazione professionale e di non perdere del tutto la posizione che si è raggiunta. Se è vero che il politico non può improvvisarsi tecnico, è altrettanto vero che questo non può improvvisarsi politico, specie in un contesto in cui anche quella del politico è diventata una vera e propria professione, in senso ideale, economico, sociale .
E’ allora comprensibile il disagio in cui si viene trovare chi – chiamato a funzioni di governo – decida di scegliere i suoi collaboratori in modo da coniugare autonomia della scelta, competenza tecnica, dedizione totale ed esclusiva agli obiettivi e ai valori di un “programma”. Il disagio, a ben vedere, nasce oggi dalla condizione in cui, nel nostro Paese in particolare, si è venuta a trovare la classe politica , e dall’immagine gravemente screditata e compromessa che essa trasmette di sé ai cittadini e alla pubblica opinione. E’ evidente infatti che i due piani, quello “politico” e quello “tecnico” non possono essere vicari e sostituirsi l’uno all’altro o sovrapporsi. “Governo tecnico” o “di tecnici” è un’assurdo e un paradosso. La professione del tecnico non può confondersi con quella di chi deve governare.
Le due responsabilità, come spiegò Max Weber nelle sue famose conferenze tenute al crepuscolo della Repubblica di Weimar, sono tra loro incompatibili, sul piano etico ma anche su quello pratico. Il politico deve servirsi della tecnica, ma non farsene un alibi o una controfigura. Il tecnico deve perseguire i suoi obiettivi pratici con probità intellettuale, mantenendosi sul percorso assegnato dalla scienza, senza farsi dominare o travolgere dalla passione politica.