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Pino Nicotri-Aldo Ferrara: libro su Renzi, Rutelli e sindaci “fuori dal Comune”

di Alberto Francavilla |23 Aprile 2014 20:00

Pino Nicotri-Aldo Ferrara: libro su Renzi, Rutelli e sindaci “fuori dal Comune”. La copertina

ROMA – E’ in arrivo nelle librerie il volumetto Dai partiti di massa ai sindaci “fuori dal Comune”. Uno dei suoi due autori, il giornalista Pino Nicotri, è collaboratore di Blitz Quotidiano. L’altro, Aldo Ferrara, è titolare della cattedra di Malattie Cardio Polmonari dell’Università di Siena. La prefazione è di Gianfranco Pasquino, un esperto che conosce bene la storia e la vita dei partiti italiani: senatore nella IX, X e XII legislatura per la Sinistra Indipendente e Progressisti, socio dell’Accademia dei Lincei, presidente della Società Italiana di Scienze Politiche, dal 1969 al 2012 docente di Scienze politiche all’Università di Bologna e dal ’76 docente di European Studies al Bologna Center della Johns Hopkins University.

Ecco come il coautore Aldo Ferrara presenta il volume nella quarta di copertina:

“Non sembra, ma è indubbio che la politica italiana non sia statica. Una lunga, inarrestabile transizione dai pariti di massa a quelli monoteisti fino ancora al partito “liquido”, un mix delle antiche “correnti” ora tramutate in comitati elettorali. In questo contesto, l’elezione diretta dei Sindaci, sin dalla legge 81 del 19993, ha sancito un potere eccessivo, conferito ad “Un uomo solo al comando”. Ma è solo la la legge che conferisce tali prerogative? O invece la naturale dissoluzione dei partiti, filtro tra società ed Istituzioni? Un uomo solo al comando signiica stabilità dell’Esecutivo oppure è un alibi per mascherare l’insussistenza della classe dirigente? Questi i quesiti che ci siamo posti, questo l’esistente. Il Lettore non troverà risposte o ricette in questo volume. Quelle appartengono ai libri di Storia. Qui troverà molte idee e perfino qualcosa in più”.

Ed ecco le parti più significative del ritratto dei più famosi quattro sindaci “fuori dal Comune”. L’ultimo dei quali – Matteo Renzi – si è dimesso da primo cittadino di Firenze lo scorso 24 marzo perché il 22 febbraio è stato nominato primo ministro.

ANTONIO BASSOLINO

L’assalto al cielo da parte dei sindaci italiani è iniziato 20 anni fa. Per l’esattezza, con la legge n. 81 del 25 marzo 1993. Con la legge cioè che introduceva l’elezione diretta del sindaco e il suo potere di nominare i membri della giunta comunale.

Tale legge introduceva di fatto in Italia la prima forma di governo di tipo presidenziale, sottraendolo al precedente modello parlamentare. La stessa legge fissava a quattro la durata del mandato di sindaco, elevata poi a cinque anni nel 2000. 1993 e 2000 sono gli anni, guarda caso, del mandato di Bassolino a sindaco di Napoli. Inevitabile quindi la tentazione per questi primi presidenti, sia pure nel solo ambito municipale, di ergersi ad esempio e voler tracciare la via anche per il potere del governo nazionale. Come? Mettendo mano a una politica che avrebbe voluto avere un piglio manageriale, antenata dell’odierna sedicente “politica di fare”, che come è tristemente constatabile da chiunque non riesce in realtà a fare nulla. Se non proclami e tante chiacchiere.

I primi a montare in cattedra sono stati, ovviamente, i “presidenti” delle grandi città. Specie di quelle disastrate, perché permettevano di mettere meglio in luce le nuove capacità, vere o presunte, e il nuovo piglio manageriale. Il boom dei sindaci di sinistra eletti a suffragio diretto spinse i partiti più o meno di sinistra a mettere immediatamente in piedi il Tavolo Progressista, attorno al quale formare un’alleanza in grado di far vincere i candidati progressisti anche alle successive elezioni politiche. Il Tavolo cadde malamente. E i sindaci di sinistra ne approfittarono per sostituirlo con una loro creatura: Cento Città.

L’intento era di mettere la pattuglia di testa dei nuovi sindaci alla guida della riscossa della sinistra dopo il fallimento dell’interpartitismo del Tavolo e in qualche modo sostituire gli stessi partiti con un’alleanza dei sindaci. Insomma, Cento Città avrebbe dovuto essere il primo passo verso la Repubblica delle Città teorizzata da Bassolino, il neo sindaco che suscitò grandi entusiasmi e aspettative. Al punto che quando il 10 e l’11 dicembre ’94 Cento Città sarà solennemente varata in Campidoglio dal neo sindaco Francesco Rutelli, Bassolino sarà l’unico per il quale il folto pubblico si alzerà in piedi e gli tributerà un frenetico applauso ritmato.

Il neo sindaco di Napoli, il parlamentare di lungo corso del Partito comunista italiano Antonio Bassolino, nel chiaro tentativo di battere anche la Lega Nord e andare ben oltre il suo confuso federalismo, teorizzò addirittura «un nuovo assetto autonomista e federale dello Stato italiano». In esso era implicita la trasformazione dell’Italia intera in “repubblica delle città”. Repubblica delle città e dei sindaci eletti direttamente dalla popolazione, e repubblica di tali sindaci visti un po’ come parlamentari di nuovo parlamento italiano. Un modo per indicare anche la necessità che il capo del governo – e magari anche il capo dello Stato – diventasse il sindaco del Paese Italia: vale a dire, che fosse eletto direttamente dalla popolazione e non nominato dal presidente della Repubblica su indicazione della maggioranza partitico-parlamentare.

Ovviamente, ognuno di questi “grandi sindaci” delle grandi città mirava a diventare lui il “sindaco d’Italia”, cioè il capo del governo e – perché no? – della stessa Repubblica italiana trasformata in Repubblica delle città. Questi sindaci rampanti ambivano a usare la propria città come trampolino di lancio verso Palazzo Chigi e il Quirinale, motivo per cui ognuno di loro aveva come imperativo categorico quello di cambiare tutto presto e bene nella propria città o almeno di farlo credere.

Ed è così che già nell’ottobre del ’96 viene pubblicato dall’editore Donzelli un libretto di un centinaio di pagine, intitolato per l’appunto “La repubblica delle città”, sotto forma di conversazione-intervista di Bassolino con Ada Becchi, Piero Bevilacqua e Carmine Donzelli. Il sindaco di Napoli è perentorio: «Se si vuole andare verso un nuovo assetto autonomista e federale dello Stato italiano, bisogna far perno sulle città e sui Comuni che sono le istituzioni più vicine ai cittadini. È il lungo filo della storia italiana, inciso nel codice genetico di ogni cittadino. Noi siamo le nostre città». Il corsivo di quel siamo è nell’originale.
E infine l’ultima riga, che chiama in causa addirittura Il Principe di Niccolò Macchiavelli: «Nel nuovo Principe batte un cuore antico».
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Federalismo dei Comuni.

«Voglio dirlo molto chiaramente. Questa della dimensione comunale è l’esperienza istituzionale più importante nell’Italia degli ultimi anni. Questa risorsa che vorrei chiamare “la fiducia nelle proprie forze” è stata secondo me la molla di tanta parte di questa esperienza nuova delle città. Infine vorrei sottolineare un punto a mio avviso essenziale. Bisogna stare molto attenti. Se si vuole andare verso un nuovo assetto autonomista e federale dello Stato italiano, bisogna far perno sulle città e sui Comuni che sono le istituzioni più vicine ai cittadini, che sono il lungo filo della storia italiana. Guai a muoversi sulla strada di un federalismo fondamentalmente regionale. Sarebbe un disastro per un paese come il nostro».

WALTER VELTRONI

Incredibile! Da segretario dei DS, nel 2001, Veltroni preferisce, in vista della débâcle, rifugiarsi nella più comoda carica di sindaco di Roma. Ecco perché lo citiamo prima del suo predecessore, Rutelli. Usare lo scranno di sindaco di una metropoli italiana come Napoli o Roma per dare la scalata al potere è divenuta prassi abituale dopo la legge del ’93. Il napoletano Bassolino, tornato a Napoli dopo dieci anni da parlamentare a Roma, non ce l’ha fatta a usare la pedana di sindaco della sua città come trampolino di rimbalzo verso Palazzo Chigi. E il romano Walter Veltroni, nonostante fosse stato stato ministro dei Beni e delle Attività Culturali e vice primo ministro e, di fatto, il fondatore del Partito Democratico, ha fallito anch’egli malgrado sia stato due volte sindaco della sua città. Nato a Roma nel luglio del 1955, un giovane dunque rispetto ai nati degli anni ’20 (Andreotti, Colombo, Napolitano). Eletto alla Camera nella X, XI, XII, XIII, XIV e XVI Legislatura, ha percorso tutte le sigle del suo partito (Pci, Pds,DS, Pd). Ministro per i Beni e le attività culturali e vicepresidente del Consiglio nel Prodi I (1996-1998). Sindaco di Roma dal 2001 al 2008. Dal 1998 al 2001 segretario dei Ds. Giornalista, dal 1992 al 1996 direttore dell’Unità. «Mio padre era romanista e mia madre laziale». Così amava definire la sua romanità.

È rimasto un sogno anche l’eventuale approdo prima o poi al Quirinale. Finché, sotto l’incalzare del sindaco rottamatore post moderno e post politico Matteo Renzi, ha dovuto uscire di scena. Passerà alla storia per essere stato il co-responsabile del dilagare di Silvio Berlusconi nel mondo della televisione, per avere rinnegato l’essere stato comunista per decenni, affermando molto ex post che in realtà lui era un kennedyano, e per il fallimento del suo ecumenismo. Un ecumenismo molto particolare, noto come “benaltrismo” e caratterizzato dal “buonismo”: perché Veltroni fa sempre mostra di essere un buono, di fronte a qualunque realtà grave anziché prenderla in considerazione e tentare di risolverla se la cava affermando che c’è “ben altro”. E dando sempre l’impressione che, come in un bel film, c’è sempre un lieto fine.

A Veltroni si deve il referendum del 1995 contro l’interruzione dei film in tv con gli spot pubblicitari. Idea suggeritagli dal giornalista televisivo Beppe Giulietti, dal ’94 membro del Parlamento. Visto che gli italiani non avevano mai reclamato né manifestato in piazza né fatto le barricate contro gli spot che scadenzavano i film in tv, e visto che, se ne erano infastiditi, potevano tranquillamente cambiare canale, andava da sé che il referendum era perso in partenza. Avere perso quel referendum significa avere legittimato lo strapotere di Berlusconi in fatto di spot televisivi, cioè di pubblicità. Si è cioè legittimata alla grande, addirittura con un referendum, la base del potere di Berlusconi.

Ma il suo grande amore resta il cinema. Da sindaco porrà le basi del festival cinematografico di Roma con l’ambizione di fare concorrenza a quello di Venezia. Il problema però è che, fin dai tempi del referendum del ’95, in un’epoca di mass media, cioè, come dice la parola stessa, di mezzi di comunicazione di massa, il cinema è perdente rispetto la tv. Così come la tv è perdente rispetto ad internet. Veltroni invece ha voluto innestare una sorta di marcia in più per aver studiato cinematografia.

Il buonismo di Veltroni, che per ogni situazione dà sempre la confortante impressione che ci sarà un lieto fine, è di chiara impronta cinematografica, deriva dalla sua passione per il cinema, ma di tipo consumista, familista e rassicurante.

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Nel 2000 Veltroni rivelò che lui in realtà non era mai stato comunista, ma kennedyano. Innamorato cioè dei fratelli John e Robert Kennedy. Il primo era stato eletto presidente degli Stati Uniti nel 1960 e il secondo venne scelto come ministro della Giustizia dal fratello non appena eletto. Su Robert il kennedyano Veltroni nel ’92 ha anche scritto un libro, “Il sogno spezzato. Le idee di Robert Kennedy”, Dalai Editore. Leggiamo cosa scriveva l’allora terzomondista (articolo del maggio 1975, per il mensile della Federazione dei Giovani Comunisti di Roma “Roma Giovani”, Crisi del capitalismo e costruzione del socialismo in Italia):

«E poi il Vietnam. Il piccolo popolo che ha sconfitto il grande colosso americano. Quanto nel corso di questi anni i giovani sono stati legati al popolo Vietnamita! A quante manifestazioni, con la sicurezza a loro caratteristica, i compagni Vietnamiti ci hanno detto: “La nostra lotta è giusta, uniti vinceremo”. E hanno sconfitto la grande potenza americana e sono entrati a Saigon dove lavorano per costruire un Vietnam pacifico e indipendente. Ora, sui muri di quella città, ieri capitale del regime di Van Thieu, i soldati del Grp hanno scritto le parole che Ho chi minh pronunciò nel ’68 prima dell’offensiva del Tet: “Questa primavera sarà migliore di ogni altra; la notizia delle vittorie riempie di gioia tutto il paese, Nord e Sud, gareggiando in coraggio sconfiggono lo Yankee. Avanti, la vittoria è nelle nostre mani”.

L’Indocina, l’Africa, la America Latina, la Cina, Cuba Socialista, il Portogallo, la Grecia, i Paesi socialisti dell’Est europeo, tutto il mondo progressivamente si colloca sulla strada della libertà e del progresso. Libertà, progresso, giustizia sociale, valori che si affermano in dimensioni sempre più ampie tra i giovani e che vanno tutti nella direzione del socialismo. Esso, lo sappiamo, non è dietro l’angolo. Coscienti di questo nel chiedere ai giovani il voto al Pci sentiamo di dover proporre qualcosa di più: un impegno coerente di coscienza e di lotta. Questo perché la linea che prospettiamo è difficile e faticosa ma non ne esistono, ne siamo convinti, altre. Non esistono, come qualche estremista crede, vie per fare più presto e meglio. No, non ci sono scorciatoie. Lenin diceva che “la via della Rivoluzione non è dritta e selciata come la Prospettiva Niewsky”. I giovani questa via hanno già cominciato a percorrerla, andranno ancora avanti per gli ideali per i quali si sono battuti in questi anni. Gli ideali della pace, della democrazia, del socialismo».

Come si concili tutto ciò con il non essere comunista ma kennedyano è un bel mistero.

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Oggi siamo tutti d’accordo nel dire che la situazione dei giovani, soprattutto riguardo il lavoro, è dura. Il giovanissimo comunista Veltroni negli anni ’70 sul mensile della Federazione Giovanile Comunista Italiana (FGCI) a proposito di “La droga e il socialismo”, dopo avere premesso che il boom delle droghe tra i giovani è colpa della «angosciosa situazione» e che vi «sono stati cacciati dall’immoralità delle classi dominanti», spiega che:
«I giovani, tutti, sognano una società più giusta e più umana. Questa società per noi è il socialismo. Esso non va predicato miticamente o atteso passivamente come l’ora X nella quale tutto cambierà. La realizzazione del socialismo è un processo laborioso, che implica la costruzione giorno per giorno di nuovi rapporti di forza, che necessita costantemente di energie ed intelligenze nuove. Il socialismo non si realizza in un giorno ma si costruisce ogni giorno».

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Buonismo, termine coniato da Ernesto Galli della Loggia nel 1995, proprio per descrivere l’approccio al mondo esibito da Veltroni. È più semplice spiegarlo con alcuni esempi. Alla domanda: per quale atleta italiano farà il tifo alle Olimpiadi, Veltroni ha risposto con il nome delle due riserve della staffetta 4 x 100 «perché sono i protagonisti più oscuri, quelli che soffrono di più»; trovandosi con una delegazione italiana in Brasile, nel 2002, ha consegnato alle agenzie la seguente frase: «Questa gente, questi bambini scalzi in mezzo al dolore, sono per me energia pura»; nel ’93 ha spiegato a Maria Latella: «Mi piacerebbe fare come Peter Pan, prendere le mie figlie e portarle sull’isola che non c’è».

FRANCESCO RUTELLI.

Francesco Rutelli, sindaco della Capitale, per due mandati consecutivi dopo la legge 81/93: dall’8 dicembre 1993 all’8 gennaio 2001, quando ha passato il testimone a Walter Veltroni. Fondatore, nel dicembre 1994 insieme al sindaco di Venezia Massimo Cacciari e a quello di Napoli Antonio Bassolino, del movimento trasversale “Cento Città’’, una sorta di partito dei sindaci che Giuliano Amato, al vetriolo, poi definì «Le Cento Padelle».
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Enfant doré della buona borghesia romana, il futuro due volte sindaco della capitale italiana, classe 1954, è figlio di un noto architetto e urbanista romano, Marcello Rutelli, nipote di Mario direttore delle Belle Arti dell’Urbe e pronipote di uno scultore palermitano abbastanza famoso, Mario. Autore a Roma della fontana delle Naiadi in piazza Esedra, del monumento ad Anita Garibaldi sul Gianicolo e della quadriga bronzea sita a Palermo in cima al teatro Politeama. Ma deluderà ben presto la famiglia per volersi dedicare alla politica più che alla professione di architetto.
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Salito al colle del Campidoglio, che peraltro – contrariamente a quel che si dice – è più alto di quello del Quirinale, cambia tono in tempo reale. Il Rutelli pannelliano anticlericale, come primissima mossa l’8 dicembre incontra Papa Wojtyla. Dichiara alla stampa: «Ammiro il Pontefice, è una figura formidabile, è un uomo che ha cambiato la storia». «Nulla ha arricchito il mio servizio di sindaco più degli incontri con il formidabile Papa Giovanni Paolo II. Non basterebbe un libro per raccontare le emozioni e le implicazioni di questi incontri”, scriverà Rutelli nel suo libro “Piazza delle libertà”.

E la città prosegue la sua inarrestabile deriva. Tra traffico, smog, incapacità di essere una vera Capitale Europea, manca un Amministratore capace che possa portarla fuori dal pantano. Ma il sindaco ha ben altro in mente. Anziché tuffarsi nei pesanti problemi della città che deve amministrare cerca di ingraziarsi a tempo di record anche i romani tifosi della Lazio declamando al Corriere dello Sport quanto segue a proposito dell’allenatore Dino Zoff: «Io non provoco mai, non è nel mio stile. Però devo rispondere ad un giudizio fresco dell’ arroganza del potere. Da una persona che occupa una simile carica sarebbe lecito attendersi maggiore responsabilità».
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Appena insediato, Rutelli pensa già a come raggiungere Palazzo Chigi. Fonda assieme ad altri sindaci il movimento Cento Città e lo tiene a battesimo il 15 ottobre ’94 nel suo Campidoglio, lui che è il più giovane sindaco d’Italia. Il Corriere della Sera del giorno dopo scrive:

«I primi cittadini di Roma, Napoli, Genova, Torino, Venezia, Catania, Bologna, Palermo, Piacenza, Belluno e decine d’altri centri lanciano un appello: cerchiamo candidati che possano vincere, creando così le basi per una reale possibilità di alternativa di governo. Essi dovranno essere individuati superando le logiche dei partiti, gli ideologismi. Attraverso elezioni primarie (lo suggerisce Enzo Bianco) o addirittura referendum (ne parla Bassolino), i candidati dovranno essere scelti in un’ampia area che va dalla sinistra alla liberal-democrazia, al riformismo, all’ambientalismo e al cattolicesimo democratico. Il sindaco di Belluno, Fistarol, ci mette dentro anche l’area leghista e il capitolino Rutelli replica:

“Dobbiamo attuare un’intercettazione positiva di un’area elettorale non schierata in modo pregiudiziale”».

Il 10 e 11 dicembre si tiene nella capitale una Convenzione democratica per dare formalmente il via a un’iniziativa che vuole superare l’interpartitismo del fallito Tavolo Progressista della scorsa primavera. Intanto, i sindaci che vogliono camminare su questa strada si organizzeranno a livello regionale, creeranno un Coordinamento dotato di “un fax e due linee telefoniche” per dare gambe a un’idea nata la scorsa estate. «Ormai abbiamo avviato i motori – ha detto Rutelli – ora bisogna togliere il freno a mano e partire».
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Nel 2006 la Corte di Cassazione (sentenza 1379 del 25.01.2006) respinge il ricorso di Rutelli contro la condanna della Corte dei Conti del 2002 a risarcire assieme ad altri il Comune di Roma per la faccenda delle consulenze d’oro. La motivazione risiede nel fatto che dal ’94 al ’96 l’ex sindaco e gli altri assessori «hanno conferito e/o rinnovato incarichi e consulenze professionali esterne in violazione di norme contenute nella legge n. 142 del 1990 e nel d.lgs. n. 29 del 1993, recepiti nello Statuto Comunale e nel Regolamento per l’Organizzazione degli Uffici e dei Servizi dell’Amministrazione Comunale».

 

MATTEO RENZI

Forse è stato lui stesso a riesumare il termine “rottamatore”, ma è l’esatto anagramma di Matteo Renzi. Giovane, brillante ripercorriamone la storia recente. Facile, avendo egli solo 39 anni. Figlio di Laura Bovoli e Tiziano Renzi, già consigliere comunale di Rignano sull’Arno tra il 1985 e il 1990 per la Democrazia Cristiana, è il secondo dei quattro figli della coppia. Studia a Firenze, prima al Liceo Ginnasio Dante e poi all’Università degli Studi di Firenze, dove si laurea nel 1999 in Giurisprudenza con una tesi in Storia del Diritto dal titolo Amministrazione e cultura politica: Giorgio La Pira, sindaco del Comune di Firenze (1951-1956). Ha una formazione scout e ha diretto, firmandosi Zac, la rivista nazionale della branca Riviste Scout “Camminiamo insieme”. Ha lavorato con varie responsabilità per la CHIL Srl, società di servizi di marketing di proprietà della sua famiglia (il cui nome è di ispirazione lupettara o da boy-scout) di cui è dirigente in aspettativa, in particolare coordinando il servizio di vendita del quotidiano “La Nazione” sul territorio fiorentino con la diretta gestione degli strilloni. Ancora diciannovenne, nel 1994, per cinque puntate consecutive partecipa come concorrente a “La ruota della fortuna”, vincendo 48 milioni di lire. Sposato dal 1999 con Agnese, insegnante di liceo, ha tre figli.

Renzi inizia la sua attività politica durante gli anni del liceo. Nel 1996 contribuisce alla nascita in Toscana dei Comitati Prodi e si iscrive al Partito Popolare Italiano, di cui diventa, nel 1999, segretario provinciale. Nel 2001 diventa coordinatore de La Margherita fiorentina e, nel 2003, segretario provinciale. Tra il 2004 e il 2009 è presidente della Provincia di Firenze; alle elezioni del 12 e 13 giugno 2004 ottiene il 58,8% dei voti in rappresentanza di una coalizione di centro-sinistra. In linea con il suo messaggio di lotta alla cosiddetta casta politica e agli sprechi sostiene di avere, durante il suo mandato, diminuito le tasse provinciali, diminuito il numero del personale e dimezzato i dirigenti dell’ente fiorentino. Tuttavia nel 2012 la Corte dei conti ha aperto un’indagine sulle spese di rappresentanza effettuate dalla Provincia durante il mandato di Renzi, che ammontano a circa 600.000 euro.

Il 29 settembre 2008 si candida alle elezioni primarie del Partito Democratico per la candidatura a sindaco di Firenze, vincendo a sorpresa con il 40,52% dei voti, il 15 febbraio 2009. Il 9 giugno 2009 alle successive elezioni amministrative, Renzi ottiene il 47,57% dei voti contro il 32% del candidato del centro-destra Giovanni Galli, con il quale va al ballottaggio. Il 22 giugno 2009 viene eletto sindaco di Firenze riportando il 59,96% dei voti. Fa parte della Direzione nazionale del Partito Democratico. Nel 2010 è stato, secondo vari sondaggi, il sindaco più amato d’Italia.
Il 6 dicembre 2010 Matteo Renzi si reca in visita ad Arcore, presso la villa privata di Silvio Berlusconi, per “discutere di alcuni temi legati all’amministrazione di Firenze”. La notizia, diffusa ad incontro ormai avvenuto, provoca reazioni contrastanti e alcune polemiche anche tra i suoi sostenitori.

Sotto la sua guida, Firenze è stata la prima grande città italiana in cui è stato approvato con un’ampia maggioranza nel consiglio comunale (30 voti a favore, 9 contrari e 5 astenuti) un Piano strutturale a Volumi Zero, ovvero senza possibilità di aumentare la cubatura rispetto al patrimonio edilizio esistente e permettendo di costruire ex novo soltanto a seguito di demolizione in uguali volumi di edifici vetusti. Il piano strutturale prevede inoltre che in futuro possano circolare nelle ZTL di Firenze solo auto elettriche. A giugno 2011 è entrata in vigore una nuova pedonalizzazione, che comprende, tra gli altri, importanti luoghi fiorentini quali Piazza de’ Pitti. Secondo uno studio di Datamonitor pubblicato nel luglio 2012 Renzi è il terzo sindaco delle città metropolitane più amato, con una percentuale di consensi del 58,4%, superato da Luigi De Magistris (65,2%) e da Piero Fassino (61%).
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Il movimento dei “rottamatori”.

Il 29 agosto 2010 Renzi lancia l’idea della «rottamazione senza incentivi» dei dirigenti di lungo corso del Pd, e dal 5 al 7 novembre seguenti organizza con Giuseppe Civati e Debora Serracchiani un’assemblea alla Stazione Leopolda di Firenze (Prossima Fermata: Italia). All’assemblea si contano oltre 800 interventi e 6800 partecipanti. Nasce così il manifesto del “renzismo”: la Carta di Firenze. I principali sostenitori del gruppo dei “rottamatori” sono il Presidente dell’Assemblea Legislativa dell’Emilia Romagna Matteo Richetti, il deputato regionale siciliano Davide Faraone ed il consigliere regionale lombardo Giuseppe Civati. Si sono dichiarati a sostegno del gruppo undici parlamentari: i senatori Andrea Marcucci, Roberto Della Seta, Francesco Ferrante, Pietro Ichino, Luigi Lusi e i deputati Luigi Bobba, Giuseppe Civati (Regione Lombardia), Roberto Giachetti, Maria Paola Merloni, Ermete Realacci e Giuseppina Servodio.

Dai primi mesi del 2011 Renzi è impegnato in una campagna contro le morti su strada dovute a incidenti stradali tramite un inasprimento delle pene e la creazione del nuovo reato di “omicidio stradale”. Nell’ottobre 2011 sulla scia della sua crescente notorietà dopo la Leopolda I, ha creato una “tre giorni” di proposte chiamata Big Bang, sempre alla Leopolda di Firenze, con i democratici Davide Faraone e Matteo Richetti, nella quale chiunque ha avuto la possibilità di salire sul palco e dire in cinque minuti la sua idea d’Italia se fosse stato a Palazzo Chigi. Questo incontro è stato oggetto di critiche da parte di alcuni esponenti del Partito Democratico, vicini al segretario Bersani. Sono intervenuti o hanno partecipato professori, scrittori (come Alessandro Baricco o Edoardo Nesi), studenti, economisti (Luigi Zingales), imprenditori (Guido Ghisolfi, Martina Mondadori, dell’omonima casa editrice, e Alberto Castelvecchi tra gli altri), lavoratori e personaggi dello spettacolo (Fausto Brizzi, Giorgio Gori, ex dirigente Fininvest e già direttore di Canale 5), mentre tra i politici Sergio Chiamparino, Arturo Parisi, Ermete Realacci, Pietro Ichino, Maria Paola Merloni, Graziano Delrio, Salvatore Vassallo, il radicale Matteo Mecacci, Federico Berruti e altri hanno sostenuto l’evento che ha avuto grande visibilità nazionale.

Nel giugno 2012 ha organizzato assieme a Davide Faraone, Matteo Richetti e Giorgio Gori la seconda edizione del Big Bang, denominata “Italia Obiettivo Comune”. Al Palacongressi di Firenze quasi un migliaio di amministratori locali del Partito Democratico hanno raccontato la loro esperienza di governo del territorio per rilanciare un nuovo modello di Pd e di Italia. Al convegno sono intervenuti Andrea Sarubbi, Andrea Ballarè e Debora Serracchiani tra gli altri, con il sostegno di personalità come, ad esempio, Salvatore Vassallo, Graziano Delrio e Vincenzo De Luca.

Il 13 settembre 2012 si candida ufficialmente, durante un comizio a Verona, alle primarie del centrosinistra. Tra gli sfidanti di Renzi: il segretario PD Pier Luigi Bersani, il presidente della regione Puglia e presidente di SEL Nichi Vendola, il consigliere della regione Veneto Laura Puppato (PD) ed il deputato del Centro Democratico Bruno Tabacci.

Per la sua campagna elettorale, Renzi organizza un tour per l’Italia a bordo di un camper, che lo porta a toccare, tra settembre e novembre 2012, tutte le province italiane. Nel primo turno delle primarie che si è svolto il 25 novembre 2012, Renzi ha ottenuto il 35,5% pari a 1.104.958 voti complessivi, posizionandosi al secondo posto tra i cinque candidati, dietro a Pier Luigi Bersani al 44,9% con 1.395.096 voti. In particolare, al primo turno Renzi è stato il candidato più votato nelle cosiddette “regioni rosse” come Toscana, Umbria e Marche. Al secondo turno delle primarie, svoltosi il 2 dicembre 2012, perde contro Bersani, ottenendo 1.095.925 voti pari al 39,1%, contro il 60,9% (1.706.457 voti) del segretario del PD.

Anche nelle “regioni rosse” Renzi non è riuscito ad aumentare i consensi rispetto al primo turno, vincendo soltanto in Toscana, mentre in tutte le altre regioni italiane ha vinto Bersani, con un ampio distacco soprattutto in quelle meridionali.

Il programma

Fra le varie proposte presenti nel programma di Renzi, c’erano la diminuzione delle tasse per il lavoro dipendente con aumento di 100 euro dello stipendio netto in busta paga, da finanziarsi tramite il taglio del 15% delle spese della pubblica amministrazione; raggiungere la copertura degli asili nido per i bimbi italiani al 40% entro il 2018, che indirettamente costituirebbeun incentivo all’occupazione femminile e la creazione di potenziali 450.000 posti di lavoro; il sostegno creditizio alla piccola e media impresa da finanziarsi tramite il ricollocamento dei fondi europei; diritti civili per le coppie omosessuali sul modello delle civil partnership inglesi; aggiornamento alla normativa europea della legge 40 del 2004 sulla fecondazione artificiale; divorzio veloce se consensuale e se i coniugi non hanno avuto figli; introduzione di una serie di meccanismi volti ad attirare in Italia investimenti esteri, come agevolazioni fiscali per i primi anni di insediamento; lotta alla corruzione con l’introduzione di pene più severe; lotta all’evasione fiscale concentrata sui grandi evasori e gli evasori totali; abolizione o riduzione drastica dei rimborsi ai partiti; diminuzione delle indennità dei politici e del numero dei parlamentari sul modello dei provvedimenti presi dal Presidente della Repubblica francese François Hollande.

Le elezioni politiche del 2013.

Nel corso della campagna elettorale per le elezioni politiche del 2013 ha sostenuto apertamente Pier Luigi Bersani. I due esponenti del PD hanno tenuto due comizi congiunti, il 1 febbraio a Firenze e il 21 febbraio a Palermo. Nel mese di aprile 2013, in occasione dell’imminente elezione del Presidente della Repubblica, Renzi ha avuto degli scontri con Pier Luigi Bersani riguardanti la situazione politica interna al Partito Democratico e ha criticato pubblicamente le candidature di Anna Finocchiaro e Franco Marini come possibili successori di Giorgio Napolitano, scatenando molte polemiche nel mondo politico italiano, e ricevendo dure repliche sia dalla Finocchiaro che da Marini. Renzi si è dichiarato favorevole al ricambio generazionale della classe dirigente, tramite l’uso di elezioni primarie. Sostiene alcune battaglie atte a ridurre il costo della politica, tra cui l’eliminazione di una delle due camere, l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, l’elezione diretta dei politici da parte dei cittadini, le abolizioni dei vitalizi e la cancellazione dei contributi statali ai giornali di partito. Riguardo il Partito Democratico, ha dichiarato che il Pd dovrebbe maggiormente guardare al futuro, alle proposte e alle idee, anziché parlare in “politichese” e inseguire le alleanze “contro qualcuno”.

Le sue posizioni politiche sono considerate da alcuni osservatori o da membri del suo stesso partito “non di sinistra”. In particolare, il suo pranzo ad Arcore con Silvio Berlusconi ha suscitato molte polemiche e perplessità tra i suoi stessi sostenitori.

Silvio Berlusconi ha dichiarato: «Renzi porta avanti le nostre idee, sotto le insegne del Pd». E Renzi ha smentito. La principale smentita però è venuta dal primo turno delle primarie, in cui il sindaco di Firenze ha vinto in tutti i principali fortini della sinistra. Ha affermato che se fosse stato un operaio della FIAT di Pomigliano d’Arco avrebbe votato «senza se e senza ma» a favore del referendum proposto da Sergio Marchionne. Tuttavia, nel 2012 ha dichiarato di esser rimasto deluso dalle successive scelte di Marchionne.

Renzi guarda con interesse alle proposte in tema di lavoro ed economia di Pietro Ichino, Tito Boeri e Luigi Zingales, tra cui la flexicurity ispirata al modello scandinavo. Si è spesso trovato in contrapposizione con i sindacati e ha sovente rimarcato la questione dell’inoperosità di una parte degli impiegati nella pubblica amministrazione. In un’intervista su Max Matteo Renzi si è dichiarato a favore della civil partnership (unioni civili sul modello britannico) e ha dichiarato che un politico non deve vedere il matrimonio «come un sacramento». Ha votato contro il nucleare ai referendum del 2011; si è espresso a favore del ricarico sulle bollette dei costi per gli investimenti sull’acqua pubblica. Per quanto riguarda lo smaltimento dei rifiuti propone, accanto a un forte sistema di prelievo differenziato dei materiali riciclabili, l’uso dei termovalorizzatori. Su questo punto è stato spesso accusato di sottovalutare i rischi legati alla presenza di diossine nei fumi di scarico degli impianti.

Procedimenti giudiziari.

Il 5 agosto 2011 è stato condannato in primo grado, insieme ad altre venti persone, dalla Corte dei conti della Toscana per danno erariale e al pagamento di 14.000 euro. Il procedimento si riferisce a quando era presidente della Provincia di Firenze. Alla condanna Renzi ha reagito richiedendo il giudizio d’appello. Le contestazioni riguardano la categoria di inquadramento di quattro persone nello staff, assunte a tempo determinato in categoria D anziché C, in violazione delle norme sull’accesso alle carriere pubbliche. Una “quisquiglia” se si volge attorno lo sguardo giudiziario.

Via le correnti.

Rivolgendosi al segretario Guglielmo Epifani, Renzi ha detto: «Se vogliamo chiamarci Partito democratico bisogna rispettare le regole. Lo statuto dice che entro il 7 novembre bisogna fare il congresso. Chiediamo agli altri di rispettare le regole e poi non le rispettiamo le scadenze? Se divento segretario la prima cosa che rottamiamo sono le correnti di questo partito, rivalità inutili». E chi mai non gli darebbe ragione! Sembra di ascoltare il primo Di Pietro che invocava una politica di legalità e trasparenza.

Matteo non fa quasi mai ricorso alla trasparenza, indica però nelle correnti i mali del PD. E soprattutto va in una direzione finora ritenuta non ortodossa: parlare a tutti cercando di intercettare non solo gli scontenti ma anche chi con convinzione ha votato a destra. Un’eresia per l’ortodossia ex comunista che cercava in se stessa la forza per governare. In questo Renzi è molto vicino a D’Alema che ha sempre cercato appoggio politico nelle destre. A differenza di Renzi , la strategia era rivolta alla dirigenza ed i contatti politici erano tenuti al massimo livello. Renzi si rivolge alla base, per ora della sinistra ma il suo fine è il coinvolgimento della base scontenta della destra. Discorsi accattivanti privi di orpelli, mai impregnati di fraseologia incomprensibile e tanto meno ideologizzata. Parla alla gente comune da uomo comune o “comunizzato”. Vuol dare l’idea di farsi capire ed usa modi, gesti e abbigliamenti del “bravo ragazzo” che tutti vorrebbero in casa da accudire. Manca l’aggressività dipietresca ed il suo linguaggio robesperriano, non induce l’interlocutore a prendere subito posizione «o con me o contro di me» come era nello stile di Di Pietro, tende a convincere anziché ad impaurire.

Infuria la battaglia congressuale.

Nel novembre 2013, la battaglia per leadership del PD è in mano a due uomini, Renzi e Gianni Cuperlo, dalemiano di stretta osservanza che, di fronte all’inflazione del tesseramento, scopre un nervo scoperto. Il tesseramento è il reclutamento di iscritti che sono il nerbo del partito. Un concetto da tradizione partitica che però deve fare i conti con la nuova realtà delle primarie aperte a tutti. È il colpo di coda dell’omologazione partitica: esisti solo se sei iscritto. Un concetto identitario che sa di conventio ad excludendum. E da questo punto di vista Cuperlo, anche se perdente, cercherà di fare il… Massimo.

Il suo competitor Renzi, di tutt’altra opinione, vuole aprire a tutti i costi, diluendo l’identificazione del partito proprio per annullarne l’efficacia e renderlo ancora più liquido. Ed è nelle sue parole, tratte da una lettera aperta inviata agli iscritti, che troviamo il core del concetto: un partito senza confini e pregiudiziali che, aprendosi a tutti, finisce per perdere il filo delle proposte. Renzi scrive:
«L’Italia deve cambiare. Deve cambiare profondamente la burocrazia, la giustizia, il fisco, il sistema di scuola università ricerca. Solo così cresceranno le occasioni di lavoro per i nostri giovani e per chi è rimasto coinvolto – magari a cinquant’anni – in una delle tante crisi aziendali in corso. E solo così torneremo a essere degni di noi stessi. La Costituzione dice che siamo una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Ma in questi anni l’hanno spesso avuta vinta quelli che campano di rendita, non chi vive di lavoro. L’Italia può cambiare. Non è vero che siamo spacciati, che decidono tutto in Europa, che possiamo solo seguire la tecnocrazia. Tocca a noi provarci. Tocca a noi cambiare verso. Tocca a noi: straordinaria, angosciante, magnifica responsabilità. Il destino del nostro Paese è nelle mani di chi legge questa lettera, di chi va a votare, di chi fa delle proposte. Non tutto è spacciato, anzi. Dare un’opportunità all’Italia dipende da noi».

Più politica.

Le lettera di Renzi prosegue: «Però servono idee chiare, servono donne e uomini capaci di realizzarle. Serve la politica, insomma. In tanti dicono che dobbiamo diminuire il tasso di politica. No. C’è bisogno di più politica. Più politica, ma meno politici, meno costi e posti di un sistema che in questi anni ha moltiplicato le poltrone, ma ha diminuito i voti. Ma non si fa di tutta l’erba un fascio. E io difendo la dignità delle centinaia di migliaia di persone perbene che vanno a votare al congresso prima (solo i tesserati) e alle primarie dopo (tutti). Difendo in particolar modo la dignità di chi non vota per me: così deve fare il responsabile di una comunità. Molti ironizzano sul fatto che noi facciamo le primarie, sui nostri confronti e talvolta anche sui nostri scontri. Ma noi siamo gli unici in Italia che invitano centinaia di migliaia di persone a uscire di casa e mettersi in gioco. A provarci davvero. A essere cittadini, non solo utenti. Giochiamo a carte scoperte, noi. Perché ce lo possiamo permettere: siamo un Partito Democratico, di nome e di fatto».

Tuttavia nella lettera Renzi non spiega come e con chi fare “più politica”. La stessa fraseologia, priva di ogni riferimento identitario, la troviamo in ogni discussione politica che in questi ultimi anni, nel tentativo di salvare sé stessa, dice quello che tutti vorrebbero sentire. Non spiega tuttavia motivazioni profonde, metodi e soprattutto non è illuminante circa le strategie vere da adottare. Se leggiamo le parole di Renzi ad un interlocutore che ne sconosce la provenienza, questi non potrà che condividere ma mai potrà verificare la fonte. Questa potrebbe essere ubiquiter, anche al bar sotto casa.

Nell’incontro televisivo alla trasmissione “Che tempo che fa” del 18 novembre scorso, quando già incassa un 46% di consensi dai circoli, Renzi esprime finalmente qualche idea sulle riforme costituzionali. In primis, la riforma del Senato nel segno della sua trasformazione in Senato delle Autonomie che si concretizza anche con la riduzione dei parlamentari. Secondo Renzi, anzi, la vera riforma elettorale consisterebbe nel ridurre soltanto il numero dei parlamentari. Il che significa minimizzare le chances della società cosiddetta civile di arrivare in parlamento; che sarà così occupato solo dagli apparatniki di partito. Idee dunque incerte che porterebbero la Camera Alta ad essere Camera dei Sindaci o delle Autonomie. Una riedizione delle Cento Città o Cento padelle di rutelliana memoria. Spostare il budget del Senato sulla costruzioni di asili etc.
Insomma, quello che, al tempo delle ideologie, si chiamava demagogia spicciola.

Appare dunque con evidenza che il partito di massa, con le sue strutture residue, è uno strumento, non più di identificazione politica, come era un tempo, e neanche un volano di trasmissione delle necessità e dei meriti, dalla società verso le Istituzioni. È stato ridotto a strumento di acquisizione e convogliamento del potere verso “un uomo solo al comando”, stravolgendo così i termini della democrazia rappresentativa che non ha più il fine di organizzare e amministrare la società, ma diviene essa stessa un mezzo per l’esercizio del potere e la sua occupazione.

In sintesi Renzi si appresta a raccogliere quello che resta dei partiti di massa italiani. Nel giugno del 1984, all’indomani della morte improvvisa e tragica di Enrico Berlinguer, alle elezioni per il Parlamento Europeo il PCI superò con il 34% la DC che mantenne il suo 33%. La somma è 67%, ossia un italiano su tre era schierato, omologato, ideologizzato. Oggi di quel patrimonio resta poco o nulla. I due partiti maggiori, confluiti tramite i loro esecutori testamentari nel PD, contano a malapena il 28-30%. Un patrimonio svanito.

Le primarie dell’8 dicembre 2013 hanno sancito la vittoria di Renzi con la definitiva messa in soffitta dell’apparato, rappresentato dall’identitario Cuperlo. A ciò si aggiunga che la stessa metodologia della votazione consente l’apporto di consenso anche da coloro che non appartengono al partito. Ossia una dimensione sovra o extra-partitica sancisce la definitiva scomparsa dei confini non solo ideologici ma anche statuali partitici. Si crea così una maggioranza amorfa, priva di confini, suscettibile di ogni spinta e pressione esterna.

E fu subito scontro.

Legge elettorale, doppio turno (vecchio cavallo di battaglia dei dalemiani) e riforma istituzionale (Senato delle Autonomie), il tutto condito in salsa berlusconiana, attizza lo scontro tra renziani ed apparato del PD. E con insolita rapidità, a soli 43 giorni dalle primarie, Gianni Cuperlo, eletto Presidente del PD, si dimette nel gennaio 2014 per i contrasti con il neo-segretario-sindaco con la seguente lettera:

«Caro Segretario,
dal primo minuto successivo alle primarie ho detto due cose: che quel risultato, così netto nelle sue dimensioni e nel messaggio, andava colto e rispettato, e che da parte mia vi sarebbe stato un atteggiamento leale e collaborativo senza venir meno alla chiarezza di posizioni e principi che, assieme a tante e tanti, abbiamo messo a base della nostra proposta congressuale. Ho accettato la presidenza dell’Assemblea nazionale con questo spirito e ho cercato di comportarmi in modo conseguente. Prendendo parola e posizione quando mi è sembrato necessario, ma sempre nel rispetto degli altri a cominciare da chi si è assunto l’onere e la responsabilità di guidare questa nuova fase. Nella direzione di ieri sono intervenuto sul merito delle riforme e sul metodo che abbiamo seguito. Ho espresso apprezzamento per l’accelerazione che hai impresso al confronto e condiviso il traguardo di una riforma decisiva per la tenuta del nostro assetto democratico e istituzionale. Non c’era alcun pregiudizio verso il lavoro che hai svolto nei giorni e nelle settimane passate. Lavoro utile e prezioso, non per una parte ma per il Paese tutto. Ho anche manifestato alcuni dubbi – insisto, di merito – sulla proposta di nuova legge elettorale.

In particolare gli effetti di una soglia troppo bassa – il 35 per cento – per lo scatto di un premio di maggioranza. Di una soglia troppo alta – l’8 per cento – per le forze non coalizzate e di un limite serio nel non consentire ancora una volta ai cittadini la scelta diretta del loro rappresentante. Dubbi che, per altro, ritrovo autorevolmente illustrati stamane sulle pagine dei principali quotidiani da personalità e studiosi ben più autorevoli di me.
Infine ho espresso una valutazione politica sul metodo seguito nella costruzione della proposta e ho chiuso con un richiamo a non considerare la discussione tra noi come una parentesi irrilevante ai fini di un miglioramento delle soluzioni.

Nella tua replica ho ascoltato la conferma che le riforme in discussione rappresentano un pacchetto chiuso e dunque – traduco io – non emendabile o migliorabile pena l’arresto del processo, almeno nelle modalità che ha assunto. Sino ad un riferimento diretto a me e al fatto che avrei sollevato strumentalmente il tema delle preferenze con tutta la scarsa credibilità di uno che quell’argomento si è ben guardato dal porre all’atto del suo (cioè mio) ingresso alla Camera in un listino bloccato. È vero. Per il poco che possano valere dei cenni personali, sono entrato per la prima volta in Parlamento nel giugno del 2006 subentrando al collega Budin che si era dimesso. Vi sono rientrato da “nominato” nel 2008 e nuovamente nel listino da te rammentato a febbraio di un anno fa. La mia intera esperienza parlamentare è coincisa con la peggiore legge elettorale mai concepita nella storia repubblicana.

Sarebbe per altro noioso per te che io ti raccontassi quali siano stati la mia esperienza e il mio impegno politico prima di questa parentesi istituzionale. Però la conosco io, e tanto può bastare. Quanto al consenso non so dire se in una competizione con preferenze ne avrei raccolte molte o poche. So che alcuni mesi fa, usando qualche violenza al mio carattere, mi sono candidato alla guida del nostro partito. Ho perso quella sfida raccogliendo però attorno a quella nostra proposta un volume di consensi che io considero non banali.

Comunque non è questo il punto. Il punto è che ancora ieri, e non per la prima volta, tu hai risposto a delle obiezioni politiche e di merito con un attacco di tipo personale. Il punto è che ritengo non possano funzionare un organismo dirigente e una comunità politica – e un partito è in primo luogo una comunità politica – dove le riunioni si convocano, si svolgono, ma dove lo spazio e l’espressione delle differenze finiscono in una irritazione della maggioranza e, con qualche frequenza, in una conseguente delegittimazione dell’interlocutore. Non credo sia un metodo giusto, saggio, adeguato alle ambizioni di un partito come il Pd e alle speranze che questa nuova stagione, e il tuo personale successo, hanno attivato. Tra i moltissimi difetti che mi riconosco non credo di avere mai sofferto dell’ansia di una collocazione. Ieri sera, a fine dei nostri lavori, esponenti della tua maggioranza hanno chiesto le mie dimissioni da presidente per il “livore” che avrei manifestato nel corso del mio intervento. Leggo da un dizionario on line che la definizione del termine corrisponde più o meno a “sentimento di invidia e rancore”.

Ecco, caro Segretario, non è così. Non nutro alcun sentimento di invidia e tanto meno di rancore. Non ne avrei ragione dal momento che la politica, quando vissuta con passione, ti insegna a misurarti con la forza dei processi. E io questo realismo lo considero un segno della maturità.

Non mi dimetto, quindi, per “livore”. E neppure per l’assenza di un cenno di solidarietà di fronte alla richiesta di dimissioni avanzata con motivazioni alquanto discutibili. Non mi dimetto neppure per una battuta scivolata via o il gusto gratuito di un’offesa. Anche se alle spalle abbiamo anni durante i quali il linguaggio della politica si è spinto fin dove mai avrebbe dovuto spingersi, e tutto era sempre e solo rubricato come “una battuta”.Mi dimetto perché sono colpito e allarmato da una concezione del partito e del confronto al suo interno che non può piegare verso l’omologazione, di linguaggio e pensiero.
Mi dimetto perché voglio bene al Pd e voglio impegnarmi a rafforzare al suo interno idee e valori di quella sinistra ripensata senza la quale questo partito semplicemente cesserebbe di essere. Mi dimetto perché voglio avere la libertà di dire sempre quello che penso. Voglio poter applaudire, criticare, dissentire, senza che ciò appaia a nessuno come un abuso della carica che per qualche settimana ho cercato di ricoprire al meglio delle mie capacità.
Auguro buon lavoro a te e a tutti noi.
Gianni».

Mentre la politica politiçien italiana annaspa, finisce qui, con questa lettera, la nostra cronistoria. Sarà scontro insanabile nel PD ovvero normalizzazione del partito fluido in mano ad un “Uomo solo al comando”? In definitiva, ai partiti di massa si è sostituito un partito “liquido”. L’assetto pseudo-bipolare ha restituito l’ingovernabilità di sempre, che dunque non è da imputare al sistema elettorale, bensì alla mancanza di identità delle componenti politiche. L’amministrazione della cosa pubblica, la cui evidenza massima è quella comunale, è semplicemente trampolino di potere. Ecco il termine “sindaco fuori dal Comune”. Tutto ben diverso dall’esempio di sindaco che vorremmo.

La storia continua con la resistibile ascesa di Matteo Renzi che non si ferma ai diktat della Direzione del PD. Vuole di più e alla metà di febbraio 2014 dà il benservito a Letta con un twitt che recita “sta sereno” ma che si può anche leggere “stasera ti meno”. La spallata, malgrado il tentativo di recupero del presidente Letta, ha il suo effetto devastante con le dimissioni del Governo. Al momento in cui le rotative danno alla luce questo volume, il governo Renzi è in carica e ci si augura che qualcuno indichi con il GPS ai giovani navigatori-ministri il relativo indirizzo (anche politico).

Sembra che ci abbia letto nel pensiero il giovane primo ministro: uscito dalla studio del Capo dello Stato, in sintesi ha detto che non bisogna stupirsi se un sindaco ascenda al governo, anzi nel futuro sarà prassi normale. Egli è mosso, o sospinto letteralmente, dai suoi cittadini, delle cui istanze è portavoce perché nessuno più di un sindaco conosce i bisogni della gente.

 

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