Pino Nicotri-Aldo Ferrara: libro su Renzi, Rutelli e sindaci “fuori dal Comune”

di Pino Nicotri
Pubblicato il 23 Aprile 2014 - 07:50 OLTRE 6 MESI FA
Pino Nicotri-Aldo Ferrara: libro su Renzi, Rutelli e sindaci "fuori dal Comune"

Pino Nicotri-Aldo Ferrara: libro su Renzi, Rutelli e sindaci “fuori dal Comune”. La copertina

ROMA – E’ in arrivo nelle librerie il volumetto Dai partiti di massa ai sindaci “fuori dal Comune”. Uno dei suoi due autori, il giornalista Pino Nicotri, è collaboratore di Blitz Quotidiano. L’altro, Aldo Ferrara, è titolare della cattedra di Malattie Cardio Polmonari dell’Università di Siena. La prefazione è di Gianfranco Pasquino, un esperto che conosce bene la storia e la vita dei partiti italiani: senatore nella IX, X e XII legislatura per la Sinistra Indipendente e Progressisti, socio dell’Accademia dei Lincei, presidente della Società Italiana di Scienze Politiche, dal 1969 al 2012 docente di Scienze politiche all’Università di Bologna e dal ’76 docente di European Studies al Bologna Center della Johns Hopkins University.

Ecco come il coautore Aldo Ferrara presenta il volume nella quarta di copertina:

“Non sembra, ma è indubbio che la politica italiana non sia statica. Una lunga, inarrestabile transizione dai pariti di massa a quelli monoteisti fino ancora al partito “liquido”, un mix delle antiche “correnti” ora tramutate in comitati elettorali. In questo contesto, l’elezione diretta dei Sindaci, sin dalla legge 81 del 19993, ha sancito un potere eccessivo, conferito ad “Un uomo solo al comando”. Ma è solo la la legge che conferisce tali prerogative? O invece la naturale dissoluzione dei partiti, filtro tra società ed Istituzioni? Un uomo solo al comando signiica stabilità dell’Esecutivo oppure è un alibi per mascherare l’insussistenza della classe dirigente? Questi i quesiti che ci siamo posti, questo l’esistente. Il Lettore non troverà risposte o ricette in questo volume. Quelle appartengono ai libri di Storia. Qui troverà molte idee e perfino qualcosa in più”.

Ed ecco le parti più significative del ritratto dei più famosi quattro sindaci “fuori dal Comune”. L’ultimo dei quali – Matteo Renzi – si è dimesso da primo cittadino di Firenze lo scorso 24 marzo perché il 22 febbraio è stato nominato primo ministro.

ANTONIO BASSOLINO

L’assalto al cielo da parte dei sindaci italiani è iniziato 20 anni fa. Per l’esattezza, con la legge n. 81 del 25 marzo 1993. Con la legge cioè che introduceva l’elezione diretta del sindaco e il suo potere di nominare i membri della giunta comunale.

Tale legge introduceva di fatto in Italia la prima forma di governo di tipo presidenziale, sottraendolo al precedente modello parlamentare. La stessa legge fissava a quattro la durata del mandato di sindaco, elevata poi a cinque anni nel 2000. 1993 e 2000 sono gli anni, guarda caso, del mandato di Bassolino a sindaco di Napoli. Inevitabile quindi la tentazione per questi primi presidenti, sia pure nel solo ambito municipale, di ergersi ad esempio e voler tracciare la via anche per il potere del governo nazionale. Come? Mettendo mano a una politica che avrebbe voluto avere un piglio manageriale, antenata dell’odierna sedicente “politica di fare”, che come è tristemente constatabile da chiunque non riesce in realtà a fare nulla. Se non proclami e tante chiacchiere.

I primi a montare in cattedra sono stati, ovviamente, i “presidenti” delle grandi città. Specie di quelle disastrate, perché permettevano di mettere meglio in luce le nuove capacità, vere o presunte, e il nuovo piglio manageriale. Il boom dei sindaci di sinistra eletti a suffragio diretto spinse i partiti più o meno di sinistra a mettere immediatamente in piedi il Tavolo Progressista, attorno al quale formare un’alleanza in grado di far vincere i candidati progressisti anche alle successive elezioni politiche. Il Tavolo cadde malamente. E i sindaci di sinistra ne approfittarono per sostituirlo con una loro creatura: Cento Città.

L’intento era di mettere la pattuglia di testa dei nuovi sindaci alla guida della riscossa della sinistra dopo il fallimento dell’interpartitismo del Tavolo e in qualche modo sostituire gli stessi partiti con un’alleanza dei sindaci. Insomma, Cento Città avrebbe dovuto essere il primo passo verso la Repubblica delle Città teorizzata da Bassolino, il neo sindaco che suscitò grandi entusiasmi e aspettative. Al punto che quando il 10 e l’11 dicembre ’94 Cento Città sarà solennemente varata in Campidoglio dal neo sindaco Francesco Rutelli, Bassolino sarà l’unico per il quale il folto pubblico si alzerà in piedi e gli tributerà un frenetico applauso ritmato.

Il neo sindaco di Napoli, il parlamentare di lungo corso del Partito comunista italiano Antonio Bassolino, nel chiaro tentativo di battere anche la Lega Nord e andare ben oltre il suo confuso federalismo, teorizzò addirittura «un nuovo assetto autonomista e federale dello Stato italiano». In esso era implicita la trasformazione dell’Italia intera in “repubblica delle città”. Repubblica delle città e dei sindaci eletti direttamente dalla popolazione, e repubblica di tali sindaci visti un po’ come parlamentari di nuovo parlamento italiano. Un modo per indicare anche la necessità che il capo del governo – e magari anche il capo dello Stato – diventasse il sindaco del Paese Italia: vale a dire, che fosse eletto direttamente dalla popolazione e non nominato dal presidente della Repubblica su indicazione della maggioranza partitico-parlamentare.

Ovviamente, ognuno di questi “grandi sindaci” delle grandi città mirava a diventare lui il “sindaco d’Italia”, cioè il capo del governo e – perché no? – della stessa Repubblica italiana trasformata in Repubblica delle città. Questi sindaci rampanti ambivano a usare la propria città come trampolino di lancio verso Palazzo Chigi e il Quirinale, motivo per cui ognuno di loro aveva come imperativo categorico quello di cambiare tutto presto e bene nella propria città o almeno di farlo credere.

Ed è così che già nell’ottobre del ’96 viene pubblicato dall’editore Donzelli un libretto di un centinaio di pagine, intitolato per l’appunto “La repubblica delle città”, sotto forma di conversazione-intervista di Bassolino con Ada Becchi, Piero Bevilacqua e Carmine Donzelli. Il sindaco di Napoli è perentorio: «Se si vuole andare verso un nuovo assetto autonomista e federale dello Stato italiano, bisogna far perno sulle città e sui Comuni che sono le istituzioni più vicine ai cittadini. È il lungo filo della storia italiana, inciso nel codice genetico di ogni cittadino. Noi siamo le nostre città». Il corsivo di quel siamo è nell’originale.
E infine l’ultima riga, che chiama in causa addirittura Il Principe di Niccolò Macchiavelli: «Nel nuovo Principe batte un cuore antico».
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Federalismo dei Comuni.

«Voglio dirlo molto chiaramente. Questa della dimensione comunale è l’esperienza istituzionale più importante nell’Italia degli ultimi anni. Questa risorsa che vorrei chiamare “la fiducia nelle proprie forze” è stata secondo me la molla di tanta parte di questa esperienza nuova delle città. Infine vorrei sottolineare un punto a mio avviso essenziale. Bisogna stare molto attenti. Se si vuole andare verso un nuovo assetto autonomista e federale dello Stato italiano, bisogna far perno sulle città e sui Comuni che sono le istituzioni più vicine ai cittadini, che sono il lungo filo della storia italiana. Guai a muoversi sulla strada di un federalismo fondamentalmente regionale. Sarebbe un disastro per un paese come il nostro».

WALTER VELTRONI

Incredibile! Da segretario dei DS, nel 2001, Veltroni preferisce, in vista della débâcle, rifugiarsi nella più comoda carica di sindaco di Roma. Ecco perché lo citiamo prima del suo predecessore, Rutelli. Usare lo scranno di sindaco di una metropoli italiana come Napoli o Roma per dare la scalata al potere è divenuta prassi abituale dopo la legge del ’93. Il napoletano Bassolino, tornato a Napoli dopo dieci anni da parlamentare a Roma, non ce l’ha fatta a usare la pedana di sindaco della sua città come trampolino di rimbalzo verso Palazzo Chigi. E il romano Walter Veltroni, nonostante fosse stato stato ministro dei Beni e delle Attività Culturali e vice primo ministro e, di fatto, il fondatore del Partito Democratico, ha fallito anch’egli malgrado sia stato due volte sindaco della sua città. Nato a Roma nel luglio del 1955, un giovane dunque rispetto ai nati degli anni ’20 (Andreotti, Colombo, Napolitano). Eletto alla Camera nella X, XI, XII, XIII, XIV e XVI Legislatura, ha percorso tutte le sigle del suo partito (Pci, Pds,DS, Pd). Ministro per i Beni e le attività culturali e vicepresidente del Consiglio nel Prodi I (1996-1998). Sindaco di Roma dal 2001 al 2008. Dal 1998 al 2001 segretario dei Ds. Giornalista, dal 1992 al 1996 direttore dell’Unità. «Mio padre era romanista e mia madre laziale». Così amava definire la sua romanità.

È rimasto un sogno anche l’eventuale approdo prima o poi al Quirinale. Finché, sotto l’incalzare del sindaco rottamatore post moderno e post politico Matteo Renzi, ha dovuto uscire di scena. Passerà alla storia per essere stato il co-responsabile del dilagare di Silvio Berlusconi nel mondo della televisione, per avere rinnegato l’essere stato comunista per decenni, affermando molto ex post che in realtà lui era un kennedyano, e per il fallimento del suo ecumenismo. Un ecumenismo molto particolare, noto come “benaltrismo” e caratterizzato dal “buonismo”: perché Veltroni fa sempre mostra di essere un buono, di fronte a qualunque realtà grave anziché prenderla in considerazione e tentare di risolverla se la cava affermando che c’è “ben altro”. E dando sempre l’impressione che, come in un bel film, c’è sempre un lieto fine.

A Veltroni si deve il referendum del 1995 contro l’interruzione dei film in tv con gli spot pubblicitari. Idea suggeritagli dal giornalista televisivo Beppe Giulietti, dal ’94 membro del Parlamento. Visto che gli italiani non avevano mai reclamato né manifestato in piazza né fatto le barricate contro gli spot che scadenzavano i film in tv, e visto che, se ne erano infastiditi, potevano tranquillamente cambiare canale, andava da sé che il referendum era perso in partenza. Avere perso quel referendum significa avere legittimato lo strapotere di Berlusconi in fatto di spot televisivi, cioè di pubblicità. Si è cioè legittimata alla grande, addirittura con un referendum, la base del potere di Berlusconi.

Ma il suo grande amore resta il cinema. Da sindaco porrà le basi del festival cinematografico di Roma con l’ambizione di fare concorrenza a quello di Venezia. Il problema però è che, fin dai tempi del referendum del ’95, in un’epoca di mass media, cioè, come dice la parola stessa, di mezzi di comunicazione di massa, il cinema è perdente rispetto la tv. Così come la tv è perdente rispetto ad internet. Veltroni invece ha voluto innestare una sorta di marcia in più per aver studiato cinematografia.

Il buonismo di Veltroni, che per ogni situazione dà sempre la confortante impressione che ci sarà un lieto fine, è di chiara impronta cinematografica, deriva dalla sua passione per il cinema, ma di tipo consumista, familista e rassicurante.

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Nel 2000 Veltroni rivelò che lui in realtà non era mai stato comunista, ma kennedyano. Innamorato cioè dei fratelli John e Robert Kennedy. Il primo era stato eletto presidente degli Stati Uniti nel 1960 e il secondo venne scelto come ministro della Giustizia dal fratello non appena eletto. Su Robert il kennedyano Veltroni nel ’92 ha anche scritto un libro, “Il sogno spezzato. Le idee di Robert Kennedy”, Dalai Editore. Leggiamo cosa scriveva l’allora terzomondista (articolo del maggio 1975, per il mensile della Federazione dei Giovani Comunisti di Roma “Roma Giovani”, Crisi del capitalismo e costruzione del socialismo in Italia):

«E poi il Vietnam. Il piccolo popolo che ha sconfitto il grande colosso americano. Quanto nel corso di questi anni i giovani sono stati legati al popolo Vietnamita! A quante manifestazioni, con la sicurezza a loro caratteristica, i compagni Vietnamiti ci hanno detto: “La nostra lotta è giusta, uniti vinceremo”. E hanno sconfitto la grande potenza americana e sono entrati a Saigon dove lavorano per costruire un Vietnam pacifico e indipendente. Ora, sui muri di quella città, ieri capitale del regime di Van Thieu, i soldati del Grp hanno scritto le parole che Ho chi minh pronunciò nel ’68 prima dell’offensiva del Tet: “Questa primavera sarà migliore di ogni altra; la notizia delle vittorie riempie di gioia tutto il paese, Nord e Sud, gareggiando in coraggio sconfiggono lo Yankee. Avanti, la vittoria è nelle nostre mani”.

L’Indocina, l’Africa, la America Latina, la Cina, Cuba Socialista, il Portogallo, la Grecia, i Paesi socialisti dell’Est europeo, tutto il mondo progressivamente si colloca sulla strada della libertà e del progresso. Libertà, progresso, giustizia sociale, valori che si affermano in dimensioni sempre più ampie tra i giovani e che vanno tutti nella direzione del socialismo. Esso, lo sappiamo, non è dietro l’angolo. Coscienti di questo nel chiedere ai giovani il voto al Pci sentiamo di dover proporre qualcosa di più: un impegno coerente di coscienza e di lotta. Questo perché la linea che prospettiamo è difficile e faticosa ma non ne esistono, ne siamo convinti, altre. Non esistono, come qualche estremista crede, vie per fare più presto e meglio. No, non ci sono scorciatoie. Lenin diceva che “la via della Rivoluzione non è dritta e selciata come la Prospettiva Niewsky”. I giovani questa via hanno già cominciato a percorrerla, andranno ancora avanti per gli ideali per i quali si sono battuti in questi anni. Gli ideali della pace, della democrazia, del socialismo».

Come si concili tutto ciò con il non essere comunista ma kennedyano è un bel mistero.

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Oggi siamo tutti d’accordo nel dire che la situazione dei giovani, soprattutto riguardo il lavoro, è dura. Il giovanissimo comunista Veltroni negli anni ’70 sul mensile della Federazione Giovanile Comunista Italiana (FGCI) a proposito di “La droga e il socialismo”, dopo avere premesso che il boom delle droghe tra i giovani è colpa della «angosciosa situazione» e che vi «sono stati cacciati dall’immoralità delle classi dominanti», spiega che:
«I giovani, tutti, sognano una società più giusta e più umana. Questa società per noi è il socialismo. Esso non va predicato miticamente o atteso passivamente come l’ora X nella quale tutto cambierà. La realizzazione del socialismo è un processo laborioso, che implica la costruzione giorno per giorno di nuovi rapporti di forza, che necessita costantemente di energie ed intelligenze nuove. Il socialismo non si realizza in un giorno ma si costruisce ogni giorno».

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Buonismo, termine coniato da Ernesto Galli della Loggia nel 1995, proprio per descrivere l’approccio al mondo esibito da Veltroni. È più semplice spiegarlo con alcuni esempi. Alla domanda: per quale atleta italiano farà il tifo alle Olimpiadi, Veltroni ha risposto con il nome delle due riserve della staffetta 4 x 100 «perché sono i protagonisti più oscuri, quelli che soffrono di più»; trovandosi con una delegazione italiana in Brasile, nel 2002, ha consegnato alle agenzie la seguente frase: «Questa gente, questi bambini scalzi in mezzo al dolore, sono per me energia pura»; nel ’93 ha spiegato a Maria Latella: «Mi piacerebbe fare come Peter Pan, prendere le mie figlie e portarle sull’isola che non c’è».