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Sotto l’accordo la banca crepa. Cercasi capitali disperatamente

di luiss_smorgana |28 Ottobre 2011 13:28

ROMA – Berlusconi gongola perché la sua “lettera” è stata accolta positivamente dal Consiglio europeo di Bruxelles. Da abilissimo venditore di fumo ha spacciato per “piano di risanamento e sviluppo” una serie di intenzioni irrealizzabili (con la sua precaria maggioranza) e persino una riforma “fantasma” (delle pensioni) che non aggiunge nulla alla legislazione già vigente.

Controprova della “missione compiuta” dal Cavaliere? I mercati brindano. Ma è proprio tutto oro quel che luccica? Non sarà che per caso il cacciatore è finito sullo spiedo? Non sarà che, mentre Silvio s’imbrodava per il successo conseguito, qualcuno dei nostri partner dell’Eurogruppo si sfregava le mani nei corridoi brussellesi per averci rifilato una “sola”? La delegazione italiana si asciugava il sudore della fronte, soddisfatta per aver superato, anche se solo per il rotto della cuffia, il difficile esame di “Teoria del risanamento e dello sviluppo” cui era stata sottoposta da parte dei partner più potenti.

E non si accorgeva, o faceva finta di non accorgersi pur di tornare a casa con un 18 sul libretto, della polpetta avvelenata servita con gli accordi di quella memorabile serata di mercoledì 26 ottobre, un boccone assai indigesto per il sistema bancario nostrano. Il risultato senza dubbio più concreto e consistente del vertice riguarda l’intesa sulle banche e, ad essa strettamente connessa, quella sull’haircut del debito sovrano della Grecia.

I titoli ellenici nei portafogli delle banche europee verranno svalutati del 50 per cento. Com’è noto, a parte le aziende di credito greche che possiedono circa 40 miliardi di bond della madrepatria, a soffrire del taglio sono in particolare le banche francesi e tedesche che si ritrovano in pancia dei bei pacchettoni di bond ateniesi (limitandoci alle più grosse, si tratta di quasi cinque miliardi complessivi per le sole Bnp Paribas e Société Générale e di 2,2 per la Commerzbank). Il drastico “taglio di capelli” costerà alle banche europee (Bce esclusa) almeno una trentina di miliardi. Per far fronte a questa perdita, e agli altri e anche più massicci rischi all’orizzonte, dovrà essere portata in porto una consistente ricapitalizzazione delle banche cosiddette “sistemiche” (le più grosse, quelle “too big to fail”): il Consiglio europeo ha valutato servano complessivamente circa 106 miliardi di euro.

Quanto alle banche italiane, esse sono esposte in misura abbastanza limitata al rischio Grecia (le due maggiori, ad esempio, Intesa e Unicredit, detengono rispettivamente 501 e 404 milioni di bond ellenici). Questa situazione ha prodotto, negli scorsi mesi e settimane, una pioggia di dichiarazioni più che ottimistiche sulla salute del sistema bancario nostrano, in quanto poco esposto al contagio greco. Ma non solo: le aziende di credito italiane, aggiungevano diversi commentatori, sono più solide di molte concorrenti europee anche perché sono maggiormente capitalizzate e in generale sono abbastanza vicine ai requisiti patrimoniali indicati dagli accordi di Basilea.

Ora, dopo il recente Consiglio brussellese, scopriamo che, secondo le stime dell’Eba (European Banking Authorithy), le banche tedesche nei prossimi mesi debbono procedere ad aumenti di capitale per cinque miliardi, quelle francesi per nove e quelle della Penisola per 14,7! Possiamo consolarci pensando che gli istituti spagnoli dovranno raccogliere 26 miliardi e quelli greci una trentina, ma è una magra consolazione. Come mai le magnifiche sorti del sistema bancario del Bel Paese non sono più tali? Come mai viene chiamato a una ricapitalizzazione così impegnativa un sistema che, oltretutto, in numerosissimi casi ha già provveduto a impegnativi aumenti di capitale? Le stime dell’Unione europea (i già citati 106 miliardi di ricapitalizzazioni, comunque poco più della metà di quanto è stato invece calcolato dal Fondo monetario internazionale così come dal Credit Suisse) tengono conto di un fattore che fin qui l’Italia pensava di poter dribblare: i titoli del debito sovrano dei paesi in difficoltà detenuti dalle banche non potranno più essere calcolati, agli effetti del coefficiente patrimoniale “core tier one”, sulla base dei prezzi di carico, come per lo più è stato fatto fin qui, a parte alcune previdenti svalutazioni per quelli greci, ma peseranno invece sui conti in base al prezzo di mercato, in genere molto più basso di quello di acquisto. In questo nuovo contesto i dolori non vengono più solamente da quel po’ di bond greci in pancia alle banche. Conta molto di più il malloppo ben più consistente dei titoli dei Piigs in genere. In particolare, le banche italiane detengono una montagna di titoli pubblici italici, circa 200 miliardi di Btp e simili (147 solo le prime cinque banche), proporzionata alla montagna del debito sovrano (oltre 1.500 miliardi in titoli).

E’ vero che i prezzi di mercato di questi bond non sono ai livelli di quelli greci e neppure dei portoghesi, ma è altresì evidente che una perdita tra il cinque e il dieci per cento del loro valore di mercato ha effetti assai più consistenti sui bilanci e sul patrimonio delle banche nostrane del dimezzamento dei titoli greci. L’intesa del Consiglio europeo sulla ricapitalizzazione delle banche che, oltre alla svalutazione dei titoli dei debiti sovrani dei paesi “periferici”, stabilisce anche un innalzamento cel “core tier one” al nove per cento entro giugno 2012, comporterà quindi nei prossimi mesi prevedibili difficoltà per molti istituti italiani. L’accordo di Bruxelles prevede che la ricapitalizzazione sia realizzata innanzitutto con capitali privati, dei vecchi soci o di nuovi “acquisti”.

Se questi non basteranno dovrebbero arrivare in soccorso gli Stati, anche loro non proprio in una stagione di vacche grasse. Infine, qualora queste due strade si dimostrassero impercorribili o insufficienti, entrerebbe in gioco l’aiuto europeo del fondo Efsf che è stato sostanziosamente potenziato. L’articolazione dell’intervento e le risorse disponibili dovrebbero mettere al sicuro, almeno per un po’, da brutte sorprese. C’è però da dire che nel caso italiano “piove sul bagnato”: l’impegno cospicuo per le ricapitalizzazioni (solo per Unicredit servono 7,4 miliardi) e la decisione di valutare i titoli posseduti ai prezzi di mercato vengono a complicare una situazione finanziaria già molto deteriorata e delicata. Di che si tratta? I fattori di crisi degli equilibri di bilancio degli istituti di credito nostrani, a parte quelli già citati riguardanti i titoli sovrani, sono almeno cinque.

Vediamoli brevemente.

1) I privati in grado di apportare capitali freschi scarseggiano. I maggiori azionisti delle banche, cioè le fondazioni, navigano in cattive acque. Anche il loro capitale spesso risente della riduzione di valore dei debiti sovrani e comunque è falcidiato ancor più della sensibilissima flessione delle quotazioni azionarie delle loro partecipate bancarie: la Fondazione Cariverona, ad esempio, è arrivata a perdere l’80 per cento sul valore di carico delle azioni Unicredit, mentre la Fondazione Mps circa il 60 sulla sua controllata. L’euforica ripresa dei titoli in Borsa all’indomani di Bruxelles è certo una boccata d’ossigeno, ma di strada le quotazioni ne debbono fare veramente molta prima di riportarsi ai livelli d’antan.

2) La raccolta di fondi sul mercato, a causa dell’innalzamento degli spread sui titoli di Stato italiani che si ripercuote sulle obbligazioni bancarie e sulle altre forme di remunerazione dei capitali, è diventata negli ultimi tempi sempre più costosa. Le banche debbono via via rinnovare montagne di obbligazioni emesse negli anni scorsi per finanziare una campagna di fusioni e acquisizioni talora dissennata (solo i primi sei istituti italiani hanno emesso 18 miliardi di euro di bond nei primi nove mesi dell’anno); il pubblico si è fatto più diffidente; come si è visto, il differenziale di rendimento sui titoli pubblici si ripercuote sui bond bancari e per tamponare le falle si moltiplicano le offerte di certificati di deposito et similia, costosi e di più breve durata delle obbligazioni, per allettare gli investitori più restii a impegni di lunga lena.

3) Le insolvenze bancarie sono aumentate del 40 per cento in un anno, secondo l’associazione degli artigiani di Mestre (Cgia). Mediobanca, che ha esaminato i bilanci di 570 aziende di credito, calcola che i crediti dubbi, tra 2003 e 2010, siano aumentati del 15,3 per cento all’anno, salendo sul totale degli impieghi dal 2,9 del 2007 al 6,4 per cento l’anno scorso. E fra questi crediti dubbi sono aumentati maggiormente quelli a più alto rischio, le cosiddette “sofferenze”, rispetto ai meno pericolosi “incagli”. Le sole sofferenze lorde ammonterebbero a circa 95 miliardi e i crediti deteriorati netti delle cinque banche più importanti a 88 miliardi.

4) La situazione di pesante insicurezza della congiuntura economico-finanziaria fa sì che si sia inaridito l’importante canale di finanziamento costituito dai crediti interbancari. Le banche che dispongono di liquidità se la tengono bene stretta anziché metterla a disposizione (dietro compenso) di altre aziende di credito in momentanee difficoltà di finanziamento. Per i medesimi motivi – l’incertezza della congiuntura e i temuti rischi di crack – si è disseccata un’altra importante fonte di liquidità, quella costituita dai prestiti a breve dei fondi monetari americani.

5) Le agenzie di rating ci mettono del loro per lavorare ai fianchi un sistema bancario italiano già stressatissimo: solo per fare un esempio, Standard & Poor’s poco più di un mese fa ha tagliato l’outlook (le prospettive) di 15 grandi banche del Bel Paese, mentre per sette di esse, incluse Mediobanca e Intesa, è stato abbassato anche il rating. E’ una conseguenza inevitabile e quasi automatica del declassamento del debito sovrano italiano e anch’essa contribuisce ad elevare il costo della raccolta (vedi punto 2). Tutti i fenomeni critici elencati si riflettono, evidentemente, sull’offerta di credito all’economia, che viene strozzata (“credit crunch”).

Del resto, è come la vecchia storia dell’uovo e della gallina. Chi è nato prima? La depressione economica o la crisi bancaria? Ha scritto uno dei maggiori esperti italiani di economia bancaria, Marco Onado: “Le banche italiane scontano l’effetto congiunto della crisi europea e dell’incapacità di crescita del paese. La soluzione del problema passa… per un’azione di governo capace di rilanciare finalmente un’economia che negli ultimi 12 anni è cresciuta complessivamente solo del 2,7 per cento e che, secondo le previsioni del Fmi, accumulerà altri due punti di ritardo nei prosimi due anni. Non ci possono essere banche robuste in un’economia stagnante”. Se mi si consente un’autocitazione, il 4 febbraio scorso scrivevo su “Blitz quotidiano” un articolo dal titolo “L’annus horribilis dei banchieri”, intendendo come annus il 2011 e come banchieri quelli italiani. Ora che l’anno volge al termine la previsione appare più che ampiamente confermata. Ma soprattutto sorge un tremendo dubbio: non è che il 2012 sarà ancora più “horribilis”? Ai posteri l’ardua sentenza.

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