
ROMA – Kirk Douglas alla fine a dicembre 2015 soffierà su 99 candeline. Kirk Douglas, l’ultimo leone di Hollywood, un curriculum di oltre cento film, racconta se stesso, la sua vita, i suoi affetti in “Life Could Be Verse“, il suo nuovo libro uscito a dicembre, di prosa e poesie. Una lunga storia fatta di incontri, aneddoti, set, tragedie familiari: una delle poesie è intitolata “A Eric”, il figlio minore morto per overdose a 46 anni, nel 2004.
L’intervista a La Repubblica a firma di Silvia Bizio:
Kirk ci viene incontro appoggiandosi al bastone, si siede sulla sua poltrona preferita nel luminoso salotto; è fragile, certo, ma lucido e di ottimo umore. I lunghi capelli bianchi raccolti in una piccola coda di cavallo. «Nel 2016, per il mio centesimo compleanno, pubblicherò il seguito di questo libro: ho ancora tante poesie nel cassetto. 100 anni: voglio arrivarci e andare oltre». Prende un libro, inforca gli occhiali e legge ad alta voce. Quando, inevitabilmente, si finisce per parlare di Spartacus e di Roma canta anche: in italiano. Il vecchio, bellissimo Douglas spera di trovare anche da noi un editore per il suo libro:
«Ma ancora non si è fatto avanti. Non posso credere che a dicembre compirò 99 anni e sono ancora qui a parlare di me. Avevo un’insegnante al liceo che mi ha inculcato l’amore per la poesia: mi incoraggiava a prendere la penna e a scrivere quando mi succedevano cose emozionanti. Da allora non ho mai smesso. Scrivendo ho capito chi sono. Potevo essere Spartaco o Ulisse, ma recitavo un personaggio, pensavo a lui, non ero io».
Ma recitare le ha dato felicità?
«Sì, amo il mio lavoro. Come ai bambini piace giocare a cowboy e indiani, quando reciti continui a giocare».
Le manca?
«Ho girato 90 film, molti brutti, e tanti belli. Sono stato Spartaco, Van Gogh, un assassino. Tutta la vita a recitare una parte. Finalmente adesso ritrovo me stesso ».
Cosa ricorda di Spartacus?
«All’inizio delle riprese avevamo un regista che non mi piaceva per niente, sapevo che era sbagliato. Non mi piace licenziare la gente, ma sentivo che dovevo liberarmi di lui. Fu Marlon Brando a suggerire Stanley Kubrick. Aveva visto Orizzonti gloria che gli era piaciuto molto. Così gli mandai il copione, lui lo lesse, e il giorno dopo venne sul set. Lo presentai a tutti dicendo: questo è il vostro nuovo regista. Stanley aveva 26 anni ma ne dimostrava 16, sembrava un ragazzino».Come le era venuta l’idea del film?
«Era un periodo difficile quello, a Hollywood c’era ancora la lista nera. Per la sceneggiatura scelsi Dalton Trumbo che, malgrado fosse il miglior scrittore dell’epoca, era finito in prigione. Ho pensato che fosse il più indicato a scrivere di uno schiavo che lotta per la libertà. All’inizio usammo uno pseudonimo, ma poi io stesso imposi il suo vero nome nei titoli di testa».
Ha spesso affermato che se avesse cominciato solo 5 anni prima, anche lei sarebbe stato nella lista nera…
«Era talmente ingiusto quello che facevano a Hollywood in quel periodo. Tanti erano a favore e io ero considerato un pazzo, ma essere pazzo rende la vita interessante, no?».
Spartacus fu girato a Roma. Cosa ricorda di quei giorni?
«Ah Roma, Roma! Sono stato in quasi tutto il mondo, ma l’Italia è il mio posto favorito. Ho fatto la corte a mia moglie in Italia. I miei ricordi più belli sono a Roma, quando lavoravo con Dino De Laurentiis, ho amato tanto quel tempo. La gente, la musica. (Comincia a cantare, “Com’è bello far l’amore quando è sera…”. E ancora “Mamma son tanto felice…”, ndr). Se potessi viaggiare ancora il primo posto dove andrei Roma».
A Roma Liz Taylor organizzò una grande festa per lei…
«Lei girava Cleopatra, stava con Richard Burton anche se era sposata con Eddie Fisher, e ha fatto una grande festa per la fine delle riprese di Spartacus, mi sembra… mah, comunque è stata molto carina».
Nel suo libro parla delle donne che ha incontrato, Mae West, Brigitte Bardot, Marlene Dietrich…
«Ah, Brigitte! Siamo amici da allora, era una donna così bella, e ancora lo è, ha dedicato la sua vita agli animali e io amo gli animali.. dov’è il mio cane?» (…)
Che rapporto ha con Michael?
«Abbiamo avuto i nostri momenti difficili, ma è acqua passata. Dalla mia malattia, e dalla sua, siamo unitissimi. Posso dirlo con serenità e gioia: è uno splendido rapporto padre-figlio. Non potrebbe essere più bello. Una cosa che mi piace di Michael è che è più intelligente di me! (Ride, ndr ). Certo, gli ho dato una mano a iniziare quando gli affidai la produzione della Sindrome cinese . Poi ha fatto tutto da solo. È diventato più famoso di me. Ora sono io il padre di… E va bene cosi».
E la folle vita hollywoodiana?
«Una volta mia moglie organizzò una serata. Frank Sinatra che era un caro amico, anche se gli piaceva mia moglie, venne nel pomeriggio e disse: cucino io. Era un bravo cuoco italiano. Al momento degli antipasti uscì dalla cucina con il vassoio in mano e offrì da mangiare agli ospiti. Non ci potevano credere.».
Guarda ancora film?
«No, non tanto. L’industria del cinema non esiste più: oggi è tutto in televisione. Voglio dire, grande schermo e sala buia stanno per scomparire, con effetti inevitabili sul prodotto stesso. E poi non conosco più nessuno».
Qual è il segreto della sua longevità?
«Vivi con qualcuno che ami e ammiri. Gioca con i bambini più che puoi, interessati al prossimo. Così non ti annoi e non annoi gli altri. Accetta i cambiamenti e i limiti e sii grato a chi rende la tua vita più facile e più felice».
Come celebrerà il suo 100° compleanno?
«Spero di avere intorno Michael e sua moglie Catherine e Anne e tutta la mia famiglia. E mi berrò un buon drink!».