Agnelli un editore d’altri tempi: la Stampa, il mito di De Benedetti e altri aneddoti - Blitzquotidiano.it (nella foto d'archivio Giorgio Fattori a sin., poi Michele Torre, Gianni Agnelli, Antonello Perricone, Marco Benedetto al microfono, in seconda fila Emilio Melli)
Era il 24 agosto di 47 anni fa quando Giovanni Agnelli decise che Giorgio Fattori sarebbe diventato direttore della Stampa. Vi racconto come avvenne.
Prima una premessa. Giorgio Fattori , Giampaolo Pansa, Luigi Guastamacchia sono tre nomi che hanno dominato l’editoria italiana negli anni 70. Oggi pochi credo li ricordino e ancor meno sono quelli che li hanno conosciuti.
Me li ha riportati alla memoria Bruno Tucci nella nostra quotidiana telefonata del mattino. Tucci a novant’anni e li porta benissimo, anzi per me è diventato un punto di riferimento e un obiettivo da raggiungere.
È stato un eccellente presidente dell’ordine dei giornalisti del Lazio, brutalmente messo da parte da una sinistra avida di comitati di disciplina. Si alza all’alba, legge i giornali e scrive una nota politica degna della grande tradizione del Corriere della Sera, che io puntualmente pubblico su Blitzquotidiano.
Tucci a quel tempo era redattore al Messaggero di Roma, di proprietà della famiglia Perrone.
Erano questi i discendenti di Ferdinando Perrone, un alessandrino trapiantato a Genova che aveva trasformato la prima fabbrica meccanica italiana nella grande Ansaldo.
Perrone fu grande rivale e concorrente di Giovanni Agnelli senior ma fu costretto a uscire dopo la prima guerra mondiale per non avere capito in anticipo che la guerra sarebbe finita e bisognava diversificarsi. Cedette la fabbrica al nascente Iri ma ebbe la accortezza di tenere i giornali: il Secolo XIX di Genova e il Messaggero di Roma.
Negli anni 70 del secolo scorso erano rimasti due suoi eredi, i cugini Ferdinando e Alessandro. Il primo amava vivere a Genova nella grande villa di famiglia in circonvallazione a monte, la bellissima villa Gruber: si era tenuta l’amministrazione dei due giornali. Il secondo preferiva Roma e la dolcissima Vita che potete immaginare fosse riservata a uno ricchissimo e direttore del più grande quotidiano della capitale.
A Genova il giornale fu diretto da Umberto Vittorio Casata fino al 1968, quando venne sostituito da uno dei più grandi direttori di tutti i tempi, Piero Ottone, un genovese (anche se cresciuto tra Pegli e Sampierdarena) che poco dopo il suo insediamento aveva portato le vendite del giornale da 80 a 130.000 copie.
Forse entusiasti per i risultati genovesi, i Perrone decisero di provare un innesto “nordico” anche nel Messaggero. Fu così che via del Tritone, storica sede del giornale, entrarono Guastamacchia come direttore amministrativo, Giorgio fattori come vicedirettore e Giampaolo Pansa come capo redattore.
Un brivido percorse la Roma dei salotti. Ricordo come fosse ieri l’arrivo in punta di piedi di Carlo Mazzarella, genovese di nascita e presenza fissa della Rai mono canale, fra i tavolini del bar Rosati in Piazza del Popolo. Ero lì per caso dopo una visita a Sergio Lepri, grande direttore dell’Ansa che aveva accettato di mandarmi come terzo redattore all’ufficio di Londra.
“Ho visto fattori” disse Mazzarella a qualcuno dietro di me, col tono di chi annuncia di avere visto la Madonna. Restai sbalordito.
L’esperimento durò poco perché proprio in quel periodo i Perrone avevano deciso di tenere il Secolo ma di liberarsi del Messaggero. La scelta era stata di venderlo a un editore molto in auge in quel periodo, Edilio Rusconi.
Rusconi era un grande editore di settimanali e anche di libri. Era stato giornalista alla stampa di Torino per poi passare a oggi di Rizzoli lì ebbe inizio la sua fortuna.
Fu quando Rusconi si recò, munito di macchina fotografica, a Cascais in Portogallo a trovare il re d’Italia in esilio, Umberto II, che il Fato manifestò il suo favore al giornalista.
Le foto del re in esilio in Portogallo, pubblicate da Oggi in una Italia per metà monarchica, spinsero la tiratura a 1 milione di copie e fecero piovere una cascata di denaro nelle tasche di Rusconi che aveva un accordo con Rizzoli per un bonus legato alle vendite.
Rusconi decise a questo punto di mettersi in proprio e lanciò un nuovo settimanale, Gente, stessa formula di Oggi, solo un po’ più a destra.
L’ingresso di Rusconi nel Messaggero fu un cataclisma. Dietro di lui si vedeva l’ombra di Fanfani, l’onnipotente segretario della Democrazia Cristiana. I tre “ torinesi” (due erano piemontesi ma Fattori era romano e romanista) sgattaiolarono via.
Negli anni seguenti, le nostre vite si incrociarono in più occasioni.
Di Guastamacchia, un signore alto e con occhi grandi e pochi capelli, ricordo soprattutto l’intelligenza e il buon senso: ogni volta che gli parlavo era l’aspetto di lui che mi colpiva di più, un buon senso che lo portò a essere tra gli altri incarichi che, direttore generale del Corriere della Sera.
Caracciolo non lo amava e non ho mai capito perché ma sono certo che fu il principe a bruciare la possibilità che Guastamacchia diventasse direttore amministrativo della Stampa, rivelando ad Agnelli un pettegolezzo relativo a una segretaria.
Pansa è stato uno dei più grandi giornalisti italiani di sempre e anche il più coraggioso nelle posizioni assunte nei confronti della Resistenza.
L’avevo conosciuto nei i miei tempi all’agenzia Ansa di Genova quando lui scendeva da Milano e da Torino per la Stampa e per il Giorno a scrivere di rapimenti e brigate rosse.
L’ho visto più volte negli anni. Ricordo con vanità e orgoglio che mi ha citato più volte nei suoi libri lodando il mio lavoro di amministratore di giornali e anche ricordando i buoni consigli che fui in grado di dargli.
Da Fattori ho imparato molto in una consuetudine di lavoro di 4 anni, facendone tesoro. Lui era diventato direttore dell’europeo a 33 anni aveva goduto della conoscenza diretta del fondatore della Rizzoli, Angelo.
Come ho anticipato, diventò direttore della stampa nel 1978. Io ero diventato amministratore delegato della Stampa di soli 36 anni grazie alla affettuosa follia di Luca Montezemolo e avevo tanto da imparare e così fu.
Il mio rapporto con Fattori non fu solo quello fra maestro e discepolo. Credo anche che il mio lavoro (spalleggiato da quel titano che è Luca Montezemolo come capo della Itedi, azionista della stampa e mio diretto superiore, autore del passaggio di Giorgio Forattini da Repubblica alla Stampa) fosse apprezzato da Fattori più di quanto desse a vedere.
Avevo incontrato più volte Fattori, fra il 1974 e il 1976 perché, dopo l’uscita del Messaggero, Caracciolo lo aveva salvato affidandogli la guida di una società delle tante del gruppo Editoriale finanziaria, che raggruppava alcune riviste dedicate al tempo libero.
L’editoriale finanziaria era una società costituita 50-50 fra Agnelli e Caracciolo nei primi anni 70 di cui Giovannini era l’amministratore delegato. Giovannini mi aveva preso come suo assistente quando il mio predecessore aveva sposato sua figlia, cosa non presentabile nell’empireo torinese (un altro esempio di come la sorte nella vita sia legata al caso e alla fortuna). Oltre alle riviste del tempo libero, a quelle chiamate riviste tecniche e alla vecchia Etas Kompass, nel portafoglio la EFI aveva anche un fior di giornale come la Gazzetta dello Sport e due quotidiani locali, il Piccolo di Trieste e l’Alto Adige di Bolzano. Di livello sopra la media due manager, Lorenzo Iorio, futuro direttore generale del Corriere della Sera e Amedeo Massari primo amministratore e cofondatore di Repubblica e futuro braccio destro di Berlusconi nel campo dei giornali.
Fattori veniva spesso a Torino a rapporto da Giovannini, facendo anticamera nel mio ufficetto posto fra quello del Capo e quello della segretaria.
I nostri erano contati semplici e sbrigativi. Solo una volta Fattori mi disse che era un punto di riferimento e questo mi fece molto piacere.
Veniamo al 1978. Dopo l’uscita di Caracciolo dalla EFI imposta da Fanfani come prova che Agnelli non era l’editore occulto dell’Espresso, Giovannini aveva promosso Fattori a capo del settore libri, Fabbri inclusa con bei risultati.
Fattori aveva importato in Bompiani Oreste Del Buono che aveva lanciato i Tascabili risollevando la casa editrice travolta dal genio creativo di Umberto Eco.
Io ero nel frattempo ero diventato capufficio stampa della Fiat e venivo spesso a Roma insediandomi nell’Ufficio al terzo piano della sede di via Bissolati.
Nonostante i risultati, Fattori era in disgrazia. Gianluigi Gabetti, grande uomo di fiducia degli Agnelli per più di una generazione, non lo amava e lo voleva sostituire con una persona che gli piacesse di più.
Fattori era disperato. Pur di avere uno stipendio o accettato di ridursi a fare il rappresentante della Fabbri a Roma ma non sapeva farsene una ragione.
Fu così che venne a trovarmi nell’ufficio di via Bissolati e mi espose la situazione. La cosa mi colpì molto non tanto per quello che stava accadendo (se ne sentono, leggono tante fin da giovani) quanto per il fatto di un uomo di oltre cinquant’anni venisse a piangere sulla spalla di un ragazzo di poco più di 30. Era un po’ come vedere tuo padre in mutande.
Quell’estate del 1978 andai in vacanza in India. Al ritorno il 20 agosto andai a Genova a prendere il mio gatto Briciola che avevo lasciato in custodia a mia sorella. Feci una deviazione fino a Forte dei Marmi a parlare con Giovannini che della stampa era l’amministratore delegato o presidente. Alla Stampa c’era una crisi nella direzione giornalistica perché il direttore Arrigo Levi aveva deciso di lasciare. Giovannini pensava a un accrocchio che coinvolgesse Giovanni Spadolini e lui stesso ma era una cosa che non stava in piedi.
Fu in pccasione di quella visita che esposi per la prima volta la mia idea: che Fattori sarebbe stato un ottimo direttore della Stampa. Giovannini si disse d’accordo e così il lunedì 24 agosto ne parlai con Luca Montezemolo che a sua volta aveva conosciuto Fattori durante l’estate a Cortina, gradendolo.
Era il 24 agosto. la Fiat aveva appena riaperto i cancelli, a Torino era già autunno. Dall’ufficio di Montezemolo in fondo al corridoio dell’ottavo piano di Corso Marconi, corriamo nell’ufficio dell’avvocato. Agnelli mi dice: “Ma Fattori è bollito”, io replico: “Lei crede alle balle che le racconta Gabetti, parli con Fattori e poi saprà decidere”.. Il tono era aspro ma l’Avvocato apprezzava chi parlava chiaro.
Fu così che mandai un autista dell’ufficio stampa a Milano per evitare che l’autista della Fabbri in qualche modo potesse fare da spia. Agnelli incontrò Fattori e ne uscì entusiasta.
Fattori diventò direttore della stampa, carica che occupò fino a quando Cesare Romiti lo mandò a fare il presidente e amministratore delegato della Rizzoli in sostituzione di Carlo Callieri che voleva ad ogni costo tornare a Torino.
Fattori in quel periodo era in grande amicizia con Romiti, il quale gli passava di nascosto anche gli appunti che Montezemolo e io preparavamo sui problemi del giornale.
Ma era anche un uomo molto freddo: Giovannini lo aveva soprannominato Findus per enfatizzare quanto il suo carattere fosse glaciale.
Devo dire che ci rimasi male quando mi fu riferito che Fattori, informato da Agnelli del mio prossimo passaggio alla Stampa come amministratore delegato, invece di esprimere gradimento replico soltanto: “Chissà se sarà capace di comprare la carta”.
Fattori fu un grande direttore della Stampa, troppo a lungo in mano a una specie di soviet. Fu un uomo di polso. Accettò di subire uno sciopero assurdo dei giornalisti quando lui direttore rifiutò di annullare la pubblicazione di una notizia di poche righe in cronaca cittadina in cui si annunciava un imminente comizio del segretario del MSI Giorgio Almirante a Torino.
Ruppe anche un tabù del giornale che per mezzo secolo aveva tenuto la cronaca di Torino a pagina due. Era un tentativo di farne un giornale meno provinciale come piaceva ad Agnelli. Su questa linea, quando lasciai la Stampa, avevo iniziato a studiare una edizione nazionale basata a Roma sul modello dell’”Herald Tribune”. La rendevano possibile le biotecnologie di produzione che la Stampa con me fu la prima in Italia a introdurre (sulla pista aperta dal Messaggero Veneto) senza conflittualità.
Nei mesi che seguirono il trasferimento di Fattori a Milano si determinò una catena di eventi che ancora una volta conferma l’invadenza del caso o della Provvidenza nelle scelte del Fato.
Romiti non aveva mai digerito che io avessi lasciato il gruppo Fiat per passare con Caracciolo e De Benedetti all’Espresso nel 1984. In un’occasione a cena con Anselmi chiese chi per Giulio fosse il più bravo in Italia nel mio mestiere e il mio concittadino, in un rarissimo sussulto di bontà, rispose “Marco!”
Romiti disse che la pensava come lui. Ci fu anche una cena di riavvicinamento organizzata da Peppino Turani in casa di Armani. Poi le cose si bloccarono. Fattori non mi voleva come suo braccio destro. Non mi aveva perdonato di essere andato via dalla stampa nel periodo più brutto della sua vita quando la prima moglie stava morendo di cancro.
Alla mia delusione subentrò negli anni una grande consolazione. Se fossi andato alla Rizzoli, sarei stato di sicuro acquiescente all’acquisizione della Fabbri e della divisione libri della fu EFI, con le conseguenti grane giudiziarie che colpirono il povero Fattorino e lo costrinsero sulla sedia a rotelle.
Rimanendo all’espresso posso dire che mi sono salvato, anzi di più.