L’edizione di Genova di Repubblica compie 33 anni domani:ecco come sono andate le cose - Blitzquotidiano.it (nella foto Ansa Franco Manzitti)
L’edizione di Genova di Repubblica compie 33 anni domani 22 settembre 2025. Se la sono festeggiata tra di loro: è bello che il passato venga celebrato.
Ora però voglio raccontare come sono andate veramente le cose.
Tutto ebbe inizio nel 1987 quando fu varata dal governo Craxi una seconda legge dell’editoria (la prima risaliva al 1981) che prevedeva contributi allettanti per i giornali in crisi.
Questo mi spinse ad un atto di arroganza e presunzione all’epoca ero amministratore delegato del gruppo Espresso, che comprendeva oltre al classico settimanale e a Repubblica anche una catena di giornali locali assemblata negli anni con pazienza e lungimiranza da Carlo Caracciolo.
Ignorando la mia diretta esperienza genovese, in base alla quale il Lavoro, organo del partito socialista già diretto da Sandro Pertini, era un giornale di grande tradizione, ma destinato alla estinzione (dicevo: Ogni vecchio socialista che muore è una copia in meno per il Lavoro. Un caso lo avevo vicino, lo zio socialista e operaio che viveva in casa mia ed era fedele compratore del Lavoro conservava religiosamente in un armadietto, quando morì rappresento una copia in meno).
Genova aveva una grande tradizione socialista. Qui nacque la grande industria italiana con l’Ansaldo, qui nel 1892 fu fondato il partito socialista nella Sala Sivori, poi cinema Palazzo, ora tornata al nome originale.
Alla luce dei contributi è vista alla grande esperienza acquisita negli anni da Mario Lenzi, esecutore del progetto di giornali locali di Caracciolo, mi convinse che se avessimo preso in mano il lavoro sarebbe stata una marcia trionfale. Invece fu un disastro.
Rilevammo l’testata dell’armatore Cameli che l’aveva salvata in precedenza, mandiamo da Roma un direttore dire proveniente da Repubblica, facciamo anche l’esperimento di occupare l’intera prima pagina con lo sport, ma il giornale continuava a perdere copie.
Piero Ottone ebbe un’idea geniale, sostituire il direttore romano con un genovese di calibro e di nome, Franco Manzitti. La decisione fu presa in una cena a casa di Cameli, un palazzo seicentesco nella strada mito dei genovesi, via Garibaldi, presenti il suo braccio destro Luigi Regis Milano, Caracciolo, Ottone e io.
Manzitti risollevò le vendite del Lavoro, ma i conti continuarono a peggiorare, complice anche qualche errore da parte dell’amministratore che avevo designato, e rapidamente sostituito con Stefano Mignanego,e si assestarono su una perdita tra i quattro e i 5 miliardi di lire dell’epoca.
Succedeva così che ogni volta che andavo a rapporto dagli azionisti del gruppo espresso, prima la Mondadori e poi la CIR, i miei interlocutori invece di esaltarsi davanti ai 100 più miliardi guadagnati da Repubblica si fissavano su quella perdita del Lavoro. Li guardavano come se fossi scappato con la casa.
Questa scena si ripeteva puntualmente 4 volte all’anno, ad ogni incontro di report.
Alla fine abbiamo un’idea geniale che salvò capre cavoli e che mi pare di vedere efficace ancora oggi: fondere il Lavoro in Repubblica, che all’epoca vendeva poche migliaia di copie in tutta la Liguria, dove dominavano a Genova e a Levante il Secolo XIX, a Ponente la stampa di Torino.
Fu un successo: il Lavoro apportò a Repubblica quasi 20.000 copie, per la gran gioia di Eugenio Scalfari, una trentina di posti di lavoro, fra giornalisti e operai, furono salvati, e soprattutto nessuno più mi tormentò con le perdite del lavoro.
Carlo Perrone, pronipote del vecchio padrone dell’Ansaldo e del Secolo (nonché del Messaggero di Roma) ci portò il tribunale per per concorrenza sleale. Ma noi, assistiti da uno dei più bravi avvocati d’Italia e mio compagno di banco in quinta ginnasio, Andrea D’Angelo, vincemmo.