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Lo Sprint fu scuola di mestiere, al Cittadino capii che ogni occasione è buona per imparare

L’esperienza allo Sprint fu una grande scuola di mestiere: e al Cittadino mi resi conto che ogni occasione è buona per imparare qualcosa.

L’esperienza allo Sprint fu per me una grande scuola di mestiere. Avevo 18 anni e frequentavo la terza liceo. Fu allora che mi resi conto che ogni occasione è buona per imparare qualcosa.

Questo vale quando si è giovani, ma vale anche nell’età avanzata. Ancora oggi sono contento quando alla fine della giornata mi rendo conto di aver imparato qualcosa.

La moraleggiante premessa mi aiuta a ricordare l’ultimo anno di liceo. La scuola era una gabbia insopportabile. Allo Sprint mi pagavano anche: cinquemila lire a settimana. non era una gran cifra se si pensa che all’epoca lo stipendio di un giovane giornalista alle prime armi era di 160.000 lire al mese. Ma erano soldi veri che mi permettevano la totale indipendenza dai miei genitori e mi affrancavano dalla necessità di chiedere loro del denaro.

Ormai la mia vita era tutta per il lavoro. E lo Sprint fu una scuola importante che mi consentì di imparare dalla base il mestiere.

Infatti, la domenica sera, raccolti tutti gli articoli in una grande busta, mi addentravo nei vicoli semi bui della città vecchia per consegnare gli originali del giornale a una linotipia alloggiata al pianterreno di un palazzo medievale.

È opportuna, a questo punto, una piccola digressione.

Prima dell’avvento dei computer per fare i giornali, i giornali si facevano col piombo: di piombo erano le lastre che coprivano i cilindri delle rotative dove venivano stampati i giornali, nel piombo erano scolpiti gli articoli. Il procedimento era complesso.

Le linotype di una volta: scuola di giornalismo

Lo Sprint fu scuola di mestiere, al Cittadino capii che ogni occasione è buona per imparare – Blitzquotidiano.it (foto ANSA)

Delle enormi macchine, le linotype, contenevano centinaia di striscette di ottone, le matrici, su ciascuna delle quali era inciso un carattere o un segno. Il linotipista trascriveva attento il testo su una tastiera come una normale macchina da scrivere, ad ogni tasto corrispondeva una matrice di ottone. Quando un certo numero di matrici (variabile a seconda della dimensione del carattere, il “corpo”, nel caso di corpo sette, una trentina) si allineava davanti al linotipista, un tasto come quello dell’a capo faceva colare nelle matrici un po’ di piombo: così si formava la riga. Tante righe formavano la colonna. Altri operai prendevano le colonne di piombo e le mettevano in pagina incastrandole in mezzo ai titoli fatti a mano da altri tipografi.

La produzione dello Sprint era molto artigianale e soprattutto decentrata. Le colonne di piombo venivano prodotte nella linotipia Valtolina in una traversa di via Giustiniani. Da lì venivano trasferite al banco di composizione che si trovava in altre parti della città. Io ne ricordo almeno due: fu lì che imparai a fare un po’ anche il tipografo.

All’inizio le pagine venivano assemblate in una tipografia nella zona di San Nicola. Lì c’era un’officina grafica curata dai padri agostiniani. Ci lavorava anche un operaio di cui non ricordo il nome, ma di cui ricordo perfettamente i racconti: era un vecchio genovese che beveva i suoi litri di latte al giorno per evitare il saturnismo da piombo (malattia di cui morì il mio nonno paterno, pittore di carrozze) e che abitava in via del Campo, la strada poi mitizzata da Fabrizio De André.

Solo che lui non abitava in Albaro ma viveva proprio lì, con moglie e figlia e si indignava ogni volta che usciva di casa perché sotto il portone c’era sempre una ragazza in attesa di clienti. La cosa che lo faceva inorridire era la presenza di un pappone che, ricordava sdegnato, le dava anche il bacino prima di mandarla ad affrontare la notte di peccato.

Il caso fu decisivo

Fu in questa prima tipografia che conobbi Giorgio Bidone, figlio di Renzo. Prima di diventare impiegato dell’Ansaldo con la sua brava laurea in legge, Giorgio aiutava il padre e arrotondava con lavoretti come quello dello Sprint. Non potendo più aiutare il padre dopo l’assunzione all’Ansaldo, Giorgio mi propose al padre come sostituto. Un’altra evidenza della importanza nella nostra vita dell’importanza del caso.

Nel frattempo, Giorgio mi insegnò i segreti del mestiere. Dopo qualche mese, cambiammo tipografia: andavo a impaginare in un posto improbabile vicino alla stazione ferroviaria di Brignole. Era un vecchio edificio che poi è stato demolito per costruire un bel palazzo di appartamenti, ma che allora era soprattutto il regno dei topi.

Non si è mai saputo come una parte di un piano fosse stata presa in uso da un personaggio straordinario che si chiamava Gianni Assereto, un uomo di una umanità straordinaria a vederlo in una prospettiva di decenni, ma che allora mi colpiva soprattutto per l’assenza di sopracciglia e la voce di falsetto. Viveva bene perché la madre aveva un negozio di guanti nel cuore di Genova a Piazza De Ferrari e lui poteva dedicarsi, oltre che alle donne in un pied-à-terre a Bogliasco, alla pubblicazione di un settimanale in formato bros-sheet che già dalla testata la diceva lunga: “Genoa Sampdoria”. Geniale e creativo, si esibiva in titoli arditi come questo che non dimenticherò mai: “Abulici”, gioco di parole con un insulto genovese.

Assereto usava per l’impaginazione un tipografo del Corriere Mercantile. Si chiamava Galluccio e lasciava dietro di sé una importante scia di dopobarba.

Avrei fatto tesoro di quell’esperienze negli anni successivi, quando lavoravo come redattore al Cittadino.

Dopo la maturità ho iniziato a lavorare stabilmente al Corriere del Pomeriggio. Così fu dall’estate del 1964 all’estate del 1966.

Durante la settimana gli uffici erano in gran parte deserti, a parte l’ufficio dell’amministrazione, l’ufficio di Renzo Bidone, segretario di redazione e capo dello sport, le stanze occupate da Luigi Vassallo e dalla sua impiegata. Vassallo, oltre a essere capo redattore del Corriere era anche direttore, editore e unico redattore di un settimanale in formato tabloid dedicato alle notizie marittime, il Corriere dei Trasporti, e il centralino dove operava una superstite del Giornale di Genova, Olga, una maga con gli spinotti di un apparecchio di altri tempi con cui poteva fare di tutto: dal “ponte” che metteva in contatto due interlocutori a due capi del mondo (un centralino analogo esisteva solo a casa Agnelli) fino ad ascoltare, non percepita, le telefonate altrui.

C’era anche un fattorino, un altro improbabile personaggio di quelli che si trovano nei giornali. Era una specie di bruto, non era genovese ma padano: si diceva fosse stato assunto perché cognato di un grosso personaggio della Fed editori dei giornali. A me sembrava un animale. Rimase stupito quando scoprì che aveva sedotto la segretaria di Vassallo e l’aveva posseduta su uno di quei vecchi divani di pelle.

La domenica le stanze un po’ tetre con gli arredi che erano diretta eredità dell’era fascista (in realtà era lo stile dell’epoca: trova lo stesso arredo negli uffici della Komsomolskaia Pravda a Mosca, risalenti agli anni ‘30) d’improvviso si rianimavano a partire dalle tre del pomeriggio, con tanti giornalisti che integravano col lavoro domenicale il loro stipendio al Secolo o al Cittadino.

Il primo ad arrivare era un signore piccolino, grassottello, totalmente calvo e con un eterno sigaro spento in bocca. Riempiva fogli su fogli di resoconti della questura in un italiano improbabile. Era gentilissimo, aveva uno sguardo mite. Vieni poi a sapere che era stato, e pelato, perché era un informatore dell’OVRA, la polizia politica del regime fascista.

Dominava la scena la Bruna, una procace signora munita di un prosperosissimo seno e di altrettanto sporgenti denti superiori. Era una dei cinque stenografi del giornale. Una volta i corrispondenti e gli inviati speciali trasmettevano i loro articoli telefonando: le loro parole venivano raccolte dagli stenografi che poi le trascrivevano e le passavano ai redattori.

Alcuni stenografi erano inquadrati come giornalisti professionisti. Il più autorevole della categoria fu Fausto Frittitta della Stampa di Torino. Avrò occasione di parlarne più avanti.

Ancora oggi, ogni volta che scrivo o che “passo” un articolo la memoria torna a quelle sere di domenica di sessant’anni fa. Il punto ancora nella mente: Renzo Bidone che dettava i suoi articoli al Corriere della Sera o La Stampa, chiudendo le citazioni con: “Ancora oggi il dibattito è aperto perché vedo che molti altri giornali italiani e stranieri antepongono il punto alle virgolette”.

Non dovevo essere pessimo se il direttore mi aveva affidato la cura della terza pagina e della pagina degli spettacoli che erano sotto la sua diretta responsabilità e supervisione.

Preparando gli articoli per la terza pagina, fu così che appresi dell’esistenza di Mao, del suo grande balzo in avanti e dei milioni di morti per la carestia. 

Curando la pagina degli spettacoli, pubblicai un articolo di Vittorio Sirianni che dava la notizia che Paolo Villaggio aveva deciso di fare il grande passo lasciando Genova e trasferendosi a Roma per tentare l’avventura nel grande mondo dello spettacolo.

Tutti a Genova nel mondo studentesco conoscevano Villaggio come protagonista di uno spettacolo annuale, noto come la Baistrocchi. Indimenticabile il suo show, dove mimava la notte prima della battaglia di Rocroy. La storia dice che il giovane principe di Condé dormisse placidamente. Nella versione di Villaggio, tutto vestito di bianco con un cappello con una grande piuma in testa, passeggiò invece tutta la notte nervosamente agitato.

A vederli in una prospettiva di mezzo secolo, gli anni Sessanta erano anni esaltanti. Forse solo perché eravamo giovani, forse proprio perché l’Italia cambiava con una velocità superiore al resto del mondo.

Eravamo arretrati, non per la guerra, ma proprio perché eravamo indietro di un secolo rispetto ai Paesi del Nord Europa e ancor più dell’America. La misura di questo distacco la ebbi chiara durante il mio primo viaggio a New York, nel 1968. Andai dal barbiere, erano italiani, emigrati penso prima della guerra. La prima domanda che mi fecero fu: “In Italia c’è la corrente elettrica?” Al loro paese, quando erano partiti, la luce non c’era ancora.

Oggi i giovani non vogliono lasciare la loro città per lavorare. Hanno le loro ragioni. Cambiare città è una lacerazione. Si impongono sacrifici perché la vita lontano da casa costa in denaro e in solitudine.

Però in quegli anni, come ho detto, emigravano anche i ragazzi di famiglie benestanti, come i giovani aristocratici inglesi e francesi andavano alla conquista dell’America, i giovani genovesi salivano al Nord, rompevano con le regole secolari della loro città, andavano a respirare aria nuova.

C’è una raccolta di sonetti di Giosuè Carducci, “Ça Ira”, dedicata alla Rivoluzione francese. Uno esalta imgiovani generali usciti dalla Rivoluzione: “Son della terra faticosi i figli/ che armati salgon le ideali cime/ gli azzurri cavalier bianchi e vermigli/ che dal suolo plebeo la patria esprime”. Me la fecero mandare a memoria in seconda media, l’ho citata senza esitazione 60 anni dopo. Ecco, era un po’ quello spirito che ci spingeva tutti, ricchi e poveri, uniti da uno spirito di indipendenza, da un desiderio di crescita e di miglioramento individuale in un sogno di miglioramento collettivo.

Nel cambiamento c’è la crescita. Nella ricerca di nuovi spazi c’è il progresso. Si va per mare per fame. Gli italiani sono troppo seduti, non viaggiano più se non per vacanza. Ho vissuto il passaggio da un mondo all’altro. Quando ero bambino, chi andava per mare era ricco. La prima Topolino su cui salii era di un conoscente di mio padre che faceva il cameriere su un transatlantico.

Pochi anni dopo, un ragazzo del mio quartiere, diplomato capitano di lungo corso, cadetto all’Accademia di Livorno, rinunciò a navigare per un posto da vigile urbano. I comandanti e gli ufficiali dei grandi transatlantici erano genovesi, alcuni triestini, i marinai erano siciliani, i camerieri di prima classe genovesi, quelli di terza venivano da Torre del Greco. Oggi…

La Cina era avanti a noi di un paio di mille anni. Poi decisero di essere perfetti e finirono occupati da inglesi e americani e giapponesi, perfino dagli italiani. In Medio Oriente è nata la nostra civiltà. Roma diventò ricca quando conquistò Siria ed Egitto, Babilonia c’era prima della Bibbia, anzi lì è nata la Bibbia. Costantinopoli ha continuato secoli dopo Roma e poi Istanbul. Ma con l’Islam la perfezione della religione prevalse sulla irrequietezza della laicità e non si sono ancora ripresi. 

Se quel migliaio di disperati non avesse lasciato l’Africa, dicono 60 mila anni fa, per cercare terre più ricche in Asia, noi non saremmo qui a parlarne. Li hanno chiamati Homo Sapiens. Prima di loro erano partiti sulle stesse piste, per almeno 200 mila anni, altri disperati, meno evoluti, meno attrezzati ma tutti spinti dallo stesso desiderio di migliorare.

A soli 20 anni, grazie a Giancarlo Piombino e Luigi Vassallo entrai al Cittadino, nell’estate del 1965, da dove, un anno dopo, passai all’Ansa, superando poi l’esame da giornalista professionista nel 1967, a 22 anni.

Il mio primo giorno di lavoro al Cittadino, nella primavera del 1965, fu segnato da un fatto angosciante. Nessuno, né Vassallo né monsignor Gianni Cicali, amministratore delegato (c’era anche un dirigente laico che oltre alle pratiche del giornale seguiva anche gli affari immobiliari della Curia. Si chiamava Coacci, un siciliano ex comunista con un bel paio di baffi bianchi. A Mosca, anni dopo incrociai il genero di Kosyghin, primo ministro sovietico, un georgiano di nome Gvishiani: mi sembrò di rivedere Coacci. C’era anche una bella e brava segretaria destinata a diventare una brava di giudiziaria alla Ansa: siamo rimasti amici tutta la vita l’ultimo messaggio su WhatsApp è di qualche giorno fa) nessuno aveva detto al direttore che ero stato preso come pre-praticante in prova (formula che prendo pari pari dalla tradizione napoletana insegnatami da Luigi Forni). 

Mi avevano sistemato una scrivania vuota delle cinque che occupavano la sala della cronaca. Di fronte avevo il tavolo del capocronista, Luciano Basso. Un certo momento della serata la porta si spalanca con impeto ed entra un prete. Mi guarda e dice: “E tu chi sei”. Io balzo in piedi e un po’ confuso rispondo: “Sono il nuovo”. Un attimo di silenzio. Imbarazzato poi il direttore chiede: “Come ti chiami?” Il mio nome, Marco, lo tranquillizza. Esclama: “Ave Marce evangelista meus” e se ne va.

Dopo qualche settimana in cronaca, vengo trasferito alle province per sostituire un redattore in vacanza. La redazione province era una stanzetta isolata da un vetro con due scrivanie: da una assicuravano le cronache del Levante e dall’altra quelle della Liguria di Ponente. Devo dire subito che fui così bravo che quando il titolare tornò dalle vacanze, non lo fecero più tornare al suo posto e lasciarono me, perché ero meglio.

Mi fu di grande aiuto un libro di Mario Lenzi che in anni successivi avrei avuto l’onore e il piacere di avere amico. Lenzi per me era un mito: a 32 anni vicedirettore di Paese Sera, giornale allora in grande spolvero, e aveva scritto questo “manuale di giornalismo” che svelava ai neofiti tutti i segreti della tipografia, dell’impaginazione, della redazione.

Fu in quel periodo che iniziò a collaborare con il Cittadino Gianni Vasino, un simpatico giovanottone di origine lombarda, corrispondente da Sanremo. Sì, proprio con Gianni Vasino che poi per molti anni avrebbe trionfato dagli schermi della Rai sport. Vassallo lo amava molto e voleva portarlo al giornale come redattore.

In quella fase, Vassallo era una presenza incombente e ingombrante, ma non aveva un ruolo formale: il caporedattore si chiamava Paladino, aveva manovrato per far licenziare per continue malattie Guido Mariotti, mio futuro grande amico e collaboratore, sperando di far assumere il figlio. Vassallo mi aveva ordinato di favorire Vasino e io mi attenevo.

Una sera, arrivò un articolo di Vasino da Noli, cittadina della provincia di Savona. Riguardava un deposito di esplosivi al centro della città che allarmava la gente. Io all’epoca facevo esperimenti di titolazioni leggendo il manuale di Lenzi e guardando i titoli dell’altro mio mito del tempo, la Stampa di Torino.

Così feci un titolo a mio giudizio molto efficace il cui concetto chiave era: la polveriera di Noli. 

Il proprietario del magazzino si infuriò e scrisse al direttore una lettera minacciosa. Il direttore aveva una grande paura delle querele perché aveva già subito una condanna per diffamazione. Mi convoca nel suo ufficio: lui seduto, io in piedi tremante. Comincio a balbettare delle spiegazioni ma lui mi interrompe spazientito: “Tu non ne puoi niente” e prosegue in genovese: “A colpa a l’è de quelli che te piggian un basin pin de m*****e te o mandan in gio pe a Rivea”.

Alla fine di tanto travaglio, Vassallo diventò direttore e Gianni Vasino arrivò in redazione e venne assegnato anche lui alle province.

Potrei dire che era il mio vicino di banco. Non posso dire che fraternizzammo molto. Era molto presuntuoso e stava molto sulle sue. Inoltre, lo invidiavo molto. Io arrancavo sui titoli e gli articoli dei corrispondenti dalla provincia (ricordo il mitico Remigio Vercellino da Cairo Montenotte, che iniziò un articolo con queste parole: “Un contadino che andava al mercato, tenendo per mano una mucca…”; la corrispondente da Ventimiglia era invece semicieca: se sbagliava a impostare le mani sulla tastiera della macchina da scrivere, bisognava ricostruire tutto il percorso delle lettere).

Vasino invece, allo scadere del turno, alle 18:30 in punto se ne andava dicendo ci vediamo alle 20:30. Ebbi la mia rivincita qualche mese dopo, quando il proto, il signor Filippi, mi prese da parte e mi mostrò un pacco di fogli che aveva conservato evidenziando con la matita blu tutti gli errori di grammatica e di ortografia commessi da Vasino. Credo che quel dossier sia stato all’inizio di una fase un po’ complicata nei rapporti tra il mio collega e il giornale. Ma a quel momento, io me ne ero già andato ed ero stato assunto all’agenzia Ansa.

Non avevo però perso l’occasione di versare 5000 lire alla colletta fra redattori e impiegati del giornale per comprare un bell’abito talare rosso a Don Andrianopoli, Don Gigetto: per consolarlo della estromissione da direttore (lo aveva sostituito Vassallo) lo avevano fatto diventare monsignore e nominare cameriere segreto del Papa. Ricordo ancora la scena della consegna e i baci e gli abbracci fra Don Gigetto e mons. Cicali: “Caro Gigetto”, “Caro Gianni”.

Fu anche, in quella occasione, una lezione di vita.

Published by
Marco Benedetto