Nove anni all’Ansa: dominava Sergio Lepri, le profezie di Fusaroli fra grandi fatti di cronaca - Blitzquotidiano.it (nella foto, processo allla banda XII ottobre, da sin. l'autore, Gianni Migliarino, in basso da sin. Filiberto Dani e Pietro Ferro
I miei nove anni all’Ansa, dal 1965 al 1974, sono stati fondamentali per la mia formazione. Su tutto dominava il direttore, Sergio Lepri, un fiorentino che non rimpiangeva di avere lasciato Firenze, ma che del suo più illustre concittadino Dante conservava la passione per la buona lingua italiana. Sul tema pubblicò anche un libro di cui ormai si è persa memoria all’Ansa e in genere nei giornali. Lepri ha guidato la trasformazione dell’Ansa dal servizio mono rete del tempo che fu al colosso di oggi, con qualche errore aggravato dai suoi successori che sono all’origine dei problemi odierni. Nella mia lunga carriera arrivai a diventare vicepresidente dell’Ansa in rappresentanza del gruppo Espresso e non persi occasione per far presenti le mie perplessità. Ma nessuno mi diede retta.
Lepri era un grande giocatore di tennis e morì nel 2022 a 103 anni. La sua fu una lunga e complessa carriera…
Dopo l’8 settembre del 1943, informa Wikipedia, entrò nella Resistenza, prima col Partito d’Azione, poi col Partito Liberale. Nel 1943-44 ebbe la sua prima esperienza giornalistica, redigendo il giornale clandestino del PLI fiorentino, L’Opinione. Nel 1944, dopo la liberazione di Firenze (11 agosto), fu eletto segretario cittadino del PLI, da cui uscì con l’ala sinistra che nel 1946 confluì nella Concentrazione Democratica Repubblicana insieme con la ex destra del Partito d’Azione di Ferruccio Parri e Ugo La Malfa, area a cui aderì anche Eugenio Montale.
Divenne giornalista al Giornale del Mattino, il cui direttore, Ettore Bernabei, avrebbe tenuto a battesimo e alla briglia (durante il suo regno, le ballerine portavano i mutandoni) la grande Rai. La loro stella polare era Amintore Fanfani, che quando divenne Primo Ministro piazzò Bernabei alla Rai e si portò Lepri a Palazzo Chigi, prima di farlo diventare direttore dell’Ansa, agenzia di stampa dominante.
Vidi Sergio Lepri la prima volta quando avevo poco più di vent’anni nel suo ufficio, nella vecchia sede di via di Propaganda, oggi un prezioso condominio vicino a Piazza di Spagna a Roma.
Ci davamo del lei, ci dividevano 26 anni. Trent’anni dopo mi propose di darci del tu, ma proprio non mi riuscì (come ancora non mi riesce di dare del tu a Giancarlo Piombino).
Più sciolti erano i rapporti col capo redattore Fausto Balzanetti e col suo vice, Bruno Caselli. Con Caselli il rapporto sarebbe durato negli anni fino a quando fui determinante nella sua nomina a direttore dopo Lepri.
Credo che Lepri mi stimasse un po’ se, nell’autunno del 1967, arrivò a fare spostare il il mio orale all’esame da giornalista per farmi seguire il viaggio del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat in Liguria e in Piemonte. Sarebbe toccato a quelli dell’ufficio di Torino, ma evidentemente preferirono me.
E continuava ad avere fiducia in me, cinque anni dopo, quando accettò di mandarmi, appena ventisettenne, all’ufficio di Londra dell’Ansa.
Prima di andare avanti, bisogna però aprire una finestra su Gaetano Fusaroli un personaggio per me fondamentale che mi fece entrare all’Ansa, mi appoggiò sempre e e mi convinse, in concordanza con Piombino, a conseguire una per quanto inutile laurea, non più in matematica ma in scienze politiche, materie più affini alla mia professione.
A questo punto non si può non ricordare Gaetano Fusaroli, per gli intimi Nino, bolognese di Budrio, personaggio straordinario, poco compreso, che si impegnava fattivamente per mantenersi tale.
Gli devo moltissimo. Entrò nella mia vita che avevo 21 anni. Era il capo dell’ufficio dell’Ansa di Genova da qualche anno, dopo un esordio nella agenzia istituita dagli americani del PWB (acronimo di Psychological Warfare Branch, Divisione per la guerra psicologica) da cui scaturì l’Ansa.
Era stato in guerra in Russia, da dove era tornato per il rotto della cuffia, puntando la pistola contro un ufficiale tedesco perché lo facesse salire su un camion in fuga durante la grande ritirata.
Era nato a Molinella di Budrio, provincia di Bologna, e aveva frequentato il Guf (Gruppo Universitario Fascista) e i bordelli di Bologna.
Conosceva i giornalisti emiliani della sua generazione che all’epoca erano molto forti sul piano nazionale, anche se non formalmente coesi, e uniti più dall’amarcord e dall’accento che da mire di potere (lo stesso si può dire, in quella o successive ere, di altri gruppi etnici: i siciliani, i napoletani, i genovesi).
Tra quei giornalisti, riconoscibili a orecchio per quel dolce cantilenante e ingannevole accento, i più famosi e noti a Fusaroli erano Enzo Biagi, Giorgio Vecchietti e Lamberto Sechi. Biagi all’epoca era già un santone: passava dalla direzione di Epoca a quella del Tg a quella del Resto del Carlino, scriveva libri, pontificava. Fusaroli ne riconosceva i successi professionali ma non lo amava: cose che capitano fra conterranei che si sono conosciuti quando entrambi erano agli albori.
Da Vecchietti, direttore del Tg quando lo incontrai a Genova a casa di Fusaroli, riceveva un’affettuosa, tollerante e comprensiva attenzione, come pure da Sechi, che all’epoca stava rifondando Panorama, trasformandolo in un grande settimanale da 300 mila copie che avrebbe insidiato L’Espresso.
Lo consideravano uno dei loro, una brava persona, solo un po’ eccentrico e certo destinato a non andare oltre il posto allora occupato.
Fusaroli non aveva molta resistenza fisica, tendeva ad andare nel pallone in situazioni critiche, non sapeva scrivere granché bene e non amava farlo. Ma aveva una visione molto avanzata della professione, aveva una passione per tutto quanto succedeva all’estero, aveva una passione per insegnare ai giovani e aiutarli a migliorare. Fu tra i primi in Italia a parlare di computer utilizzati nella produzione dei giornali, fu il primo a parlarmi di Caracciolo come della nuova frontiera dell’editoria.
Scrisse un libro profetico: “Giornali in Italia, cambiare per sopravvivere”. Con 10 anni di anticipo si descriveva il futuro di quello che sarebbe stato il periodo d’oro dei giornali quotidiani e settimanali.
A suo tempo, alla Stampa, sarei stato il primo (dopo i pionieri del Messaggero Veneto) a applicare quelle teorie.
Fusaroli era un personaggio straordinario, per alcuni aspetti molto più avanti del nostro tempo
Purtroppo, quella sua debolezza di scarsa resistenza fisica ne limitava la capacità di lavoro in anni in cui un ufficio regionale come quello dell’Ansa di Genova aveva solo due unità in organico, capo incluso.
Questo limitava la credibilità del suo messaggio messianico, che in più aveva il difetto di essere lanciato nella Genova, profonda provincia, degli anni Sessanta.
Per un ragazzo come me, la cui storia può essere emblematica dell’evoluzione e della crescita di una generazione di italiani di classe medio-bassa dagli anni ’60 agli ’80, fu come andare a Lourdes.
Mi fece capire come si scriveva un pezzo, lui che dettava con fastidio al telescriventista una notizia di dieci righe, e mi insegnò l’analisi dell’articolo e la sua scomposizione nei vari elementi costitutivi (la tecnica poi rigorosamente applicata da Sechi a Panorama nel formato A 4, che a sua volta portò all’estremo rigore l’impostazione stilistica della Stampa di Giulio De Benedetti).
Spinse il mio sguardo fuori dell’Italia, inducendomi a imparare l’inglese e mi organizzò due soggiorni di un mese, ferie-lavoro, a Londra e New York rispettivamente, nel 1967 e 1968.
Fusaroli era eccitato dall’affermazione dei comitati di redazione in Francia e dal prevedibile contagio in Italia e teorizzava il ruolo del sindacato nella futura gestione dei giornali. “Devi entrare nel sindacato oppure nel management”, mi diceva.
Provai la strada del sindacato ma non faceva per me.
All’Ansa, allora e forse anche oggi come in altre testate, il comitato di redazione aveva peso anche nelle nomine e nei trasferimenti, anche se la vecchia guardia dei redattori capo, Balzanetti e Caselli, tenevano duro e il direttore Lepri faceva poi quello che voleva lui.
Quando Balzanetti vedeva Luigi Vianello, all’epoca socialista e componente del cdr, amava dire: “Ucci ucci sento odor di compagnucci.”
Anche io feci esperienza sindacale. All’epoca, presidente della Associazione ligure dei giornalisti era il padre di Mario Spetia, Nanni Spetia, ottima persona, mitissimo uomo, buono e caro, ma dichiaratamente di estrema destra fin nel saluto a braccio teso.
Intratteneva rapporti cordiali con le autorità, faceva la spaghettata della domenica sera col questore e il comandante dei carabinieri, ma era ormai fuori sintonia col mondo in evoluzione.
Si costituì un gruppo di sinistra, in cui la componente comunista pesava poco, a parte i redattori dell’Unità. Forse più antifascista che di sinistra era il candidato e poi presidente: Pippo Gallo, socialdemocratico, reduce da Mauthausen. Ci sosteneva Mauro Manciotti, coltissimo intellettuale liberale (anni dopo anche lui presidente della Ligure).
Vincemmo nell’anno in cui la giunta della Federazione Nazionale della Stampa (FNSI )passò alla sinistra, guidata da Luciano Ceschia, triestino e democristiano di sinistra. Pippo Gallo, un gentiluomo e forse anche un po’ nobile a giudicare dall’anellone d’oro con sopra inciso qualcosa, diventò presidente della Ligure.
Era una gran brava persona, estremamente per bene, redattore del Secolo XIX, forse un po’ troppo incline a perdere la pazienza, ma tutti gli volevano bene e lo rispettavano e il suo passato di antifascista e di deportato lo collocava un palmo sopra la massa dei giornalisti genovesi, alcuni reintegrati dopo l’epurazione post-bellica.
Io diventai segretario dell’associazione sindacale: ero il più giovane, avendo 25 anni, e disponevo dell’energia che a quell’età moltiplica entusiasmo e capacità di lavoro. Ma durai poco. Un po’ perché mia moglie, nuovissima, reclamava la sua parte del mio tempo libero, e un po’ perché capii che il mio concetto di carità cristiana e difesa dei deboli e la mia aspirazione al progresso attraverso studio e lavoro non coincidevano con le esigenze e le attese, più che legittime, dei colleghi genovesi più anziani: “Voemo e palanche” (vogliamo i soldi) mi sbattevano in faccia quando parlavi di scuole e aggiornamento.
All’epoca, riscaldato da Fusaroli, credevo che il principale compito del sindacato fosse quello di accompagnare la trasformazione del giornalismo, verso il suo adeguamento alla società italiana post ‘68.
Quei miei anni all’Ansa coincisero con una serie di eventi, fra cui cito l’affondamento della London Valour davanti all’ingresso del porto di Genova, il rapimento di Milena Sutter, l’inizio del terrorismo rosso con la banda 12 ottobre, la grande alluvione con lo straripamento del Bisagno del 1970.
Furono fatti che attirarono a Genova il fiore degli inviati. Da Mauro Mancini a Enzo Passanisi a Giampaolo Pansa. Molto alto era anche il livello dei corrispondenti: Filiberto Dani e Camillo Arcuri ne sono esempio.
Grande per umanità e capacità professionale fu Pietro Ferro. Uomo di una sensibilità notevole, chiamava il figlio (oggi anche lui, bravo giornalista) Alpino (mai capito perché), dava a tutti del ladro: non si sa di cosa, forse dello stipendio. Era un bell’uomo e si vantava di avere partecipato da giovane alle riprese del film “Achtung! Banditi!” di Carlo Lizzani.
Non così era, devo dire, per la media dei cronisti locali. Fra i grandi eventi che ebbero Genova come teatro ci fu la frana che colpì un palazzo con morti e feriti in via Tofane, sopra l’ingresso della stazione della autostrada per Milano.
In quella occasione, ebbi un assaggio del livello dei colleghi genovesi. Saranno state le undici di sera. Intorno era tutto buio, i fari dei pompieri aumentavano il clima sinistro. Ferro e io eravamo piegati sui nostri taccuini quando si presenta un collega del Secolo XIX. Aveva finito il turno in redazione e veniva dare un’occhiata. Per paura di dover essere chiamato a dare una mano precisò subito: “Mi son chi en turist”. Non c’è bisogno di traduzione.
Il massimo dell’abiezione professionale me lo raccontò Guido Coppini, il quale subito dopo la guerra era diventato redattore del giornale poi chiuso giustamente, il Corriere della Liguria, e anche corrispondente della Gazzetta del Popolo di Torino, allora ancora più forte della Stampa diretta da Giulio De Benedetti. L’ombra di Donat Cattin l’avrebbe portata alla chiusura.
Per conto della Gazzetta, Coppini era riuscito a entrare in carcere e a intervistare e fotografare una donna arrestata per aver ucciso il marito. Dipendente leale, Guido offrì il servizio anche al suo direttore, il quale gli rispose in dialetto: “Mi assassin in scio o mae giornale no ghe ne voeggio” (io assassini sul mio giornale non ce ne voglio).
Per me fu una grande scuola, una grande esperienza. Non avevo orari, al mattino mi svegliavo gridando “mamma caffè” e lei accorreva nella mia cameretta di 3 metri per 1,30 dalla cui finestra si vedevano il porto con le navi e il mare e una parte della città vecchia. La notte era definita dai rumori del porto e dai rintocchi ogni quarto d’ora dell’orologio del Carmine.
Uscivo e non sapevo quando sarei tornato: forse per pranzo, forse a notte fonda. Tutte le mattine andavo a Palazzo Ducale, all’epoca sede della Procura della Repubblica, del Tribunale e delle auto giudiziarie.
Ricordo i dinieghi di Francesco Coco, il magistrato poi ucciso dalle Brigate Rosse, entrai in confidenza con Mario Sossi, lui rapito qualche anno dopo da quelle stesse Brigate Rosse, il quale a un certo punto voleva convincermi che era in atto un complotto comunista per travolgere l’Italia. Per dirmi questo mi fece uscire dall’ufficio e parlava mentre camminavamo nei vicoli intorno al palazzo.
Ebbi occasione anche di incontrare Carmelo Spagnuolo, procuratore generale e grande avocatore di indagini scomode, travolto anni dopo dallo scandalo della P2.
In cerca di notizie frequentavo la questura, dove dominava Angelo Costa detto Angiolin, una eccezione nella polizia italiana: era stato partigiano ed era genovese in mezzo a tanti meridionali, molti dei quali ex appartenenti alla OVRA, la polizia politica di Mussolini.
Si dava da fare Arrigo Molinari, calabrese e appena trasferito da Sanremo. Quando Luigi Tenco si uccise dopo una infelice serata al Festival di Sanremo, Molinari, sempre desideroso di citazioni, telefonò nel cuore della notte a Fusaroli, che era il capo dell’Ansa di Genova. L’Ansa piaceva molto a funzionari e ufficiali in carriera perché le sue notizie costituivano la prima lettura al ministero e negli alti comandi a Roma.
Quella notte Molinari si scatenò: fece anche tirar fuori dall’obitorio il cadavere del cantante per permettere al nostro fotografo gli orribili scatti. Anni dopo, quando io ormai avevo fatto un po’ di carriera ed ero amministratore delegato di Repubblica, Molinari, che nel frattempo era diventato perfetto, si inventò che aveva dato la notizia a me. Che avesse una tendenza all’auto pubblicità l’avevo scoperto già qualche anno prima a Sanremo, nel 1965, all’epoca dell’inchiesta sui cognati amanti di Riva Ligure. Di tutto questo racconterò più avanti.
Frequentavo più volentieri i carabinieri. Erano giovani, nessuno di loro era genovese, tranne Giamba Mattarana, mio compagno di scuola, uno dei miei più vecchi e cari amici, amico caro ancora oggi. Di un altro sono amico ancora oggi, Luciano Seno, grande servitore dello Stato, vittima di ingiustizie giudiziarie. È nella storia per avere guidato la cattura di Renato Curcio e Alberto Franceschini nel 1974.
Uscivo spesso la sera con quei giovani ufficiali senza famiglia e poco più grandi di me, andavo con loro nei night club. Quella frequentazione fu fatale per uno di loro, un sardo di Bosa di nome Mario P. , gran brava persona e grande bevitore. Mario si innamorò di una entraîneuse tedesca dal nome di battaglia di Lady L., una bellissima donna bionda che aveva anche un figlio di undici anni. Commise l’imprudenza di confidarsi con un suo collega che trafficava con i servizi segreti e nutriva ambizioni di carriera. Risultato fu che Mario venne trasferito nel giro di pochi giorni a un incarico umiliante a Palermo.
Lui decise di sposare la donna. Mi chiese di fargli da rappresentante al matrimonio, cosa che feci con piacere e invidia. Ho poi saputo che lasciò l’arma e si ritirò in Sardegna dove morì relativamente giovane.