E non era la prima volta. Vale la pena chiedersi ancora come fu che Moratti, che ce l’aveva nell’Inter, scaricò al Milan 10 anni fa, quel talentuoso numero 10 che avrebbe vinto tutto, ma proprio tutto, a parte gli Europei che chissà, magari è la volta buona? Anche il Pallone d’oro, in effetti, non ha vinto: dice che quest’anno, forse, con l’Italia in finale, ma davvero questo riconoscimento aggiungerebbe qualcosa alla sua prodigiosa carriera? Non vale la pena chiederselo così come non vale la pena comprendere per quale ragione Pirlo, che rispetto a compagni ed avversari sembra giocare un altro sport, non attragga le folle in visibilio, non solletichi l’interesse dei media, non giganteggi da ogni manifesto come star più celebrate che alla palla però danno ancora del lei.
Forse perché il riserbo che si è imposto e che i giornalisti solo per finta e solo in giorni come questi mostrano di apprezzare, rallenta la corsa della giostra gossippara e pallocentrica. Neanche la circostanza che sia di origine sinti in terre bresciane ha fatto breccia più di tanto: niente dibattiti e foto di famiglia, o insulti di razzisti sorpresi tacitati da professionisti del politicamente corretto. Pirlo non spende una parola, sempre, in ogni caso: alla fine gli altri si stancano e la faccenda muore lì. Un capolavoro di undestatement, le follie in favore di teleobiettivo di un Balotelli sono agli antipodi. Però, a ripensarci, un negro e uno zingaro bresciani in nazionale, è almeno intrigante. Il Django Reinhard della pedata ha il torto, però, per una storia strappalacrime con riscatto finale compreso, di non essere nato povero e aver iniziato con il fatidico pallone di stracci. La sua famiglia lavora, alla maniera antica dei sinti, i metalli: un’ impresa siderurgica è una cosa seria, modellare l’acciaio è un’arte. Certi cucchiai sono più affilati della katana di uno shogun.