Libri

Miti d’italia, i più radicati: siamo un popolo erede dell’impero romano e Roma capitale

Fra i miti che incombono sull’Italia e sugli italiani ce ne sono due particolarmente radicati: quello di un popolo erede della tradizione romana e quello di Roma capitale.

Questo secondo auto-inganno ha portato i padri dell’Italia unita a un errore di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze.

Non è facile capire come quel gruppetto di genovesi che ha fatto l’Italia, guidati da Mazzini e Garibaldi col sangue di Mameli e altri eroi, si siano incaponiti a voler fare di Roma la capitale d’Italia.

Torino era troppo decentrata? Ma lo stesso non è per Londra, Parigi, Berlino, Lisbona? Madrid centrale alla Spagna non ha impedito secoli di declino.

In più c’è da considerare che l’Italia dopo l’unità fu resa più “corta” dalle nuove linee ferroviarie: da Torino a Roma (e da Roma a Napoli e Palermo) ci si impiegava più o mono lo stesso tempo allora che oggi, poche ore rispetto alle settimane che impiego Ariosto ai suoi tempi.

Gli indiani hanno tenuto la capitale a Delhi, su al nord e la città santa, Varanasi o Benares, ben più a sud e i padri fondatori di Israele hanno scelto Tel Aviv, non Gerusalemme.

Come sarebbe l’Italia se Torino fosse ancora capitale e Roma città santa per il Papa e i suoi giubilei?

L’Italia s’è desta

Miti d’italia, i più radicati: siamo un popolo erede dell’impero romano e Roma capitale – Blitzquotidiano.it (Goffredo Mameli nella fiction Rai è stato fatto calabrese)

Il tema della eredità romana è ancora più tormentato e tormentoso. Per più di mille anni la letteratura e la storiografia italiane sono state dominate dal mito di un grande popolo che cercava il riscatto dalla invasione longobarda, ottenendolo, dopo l’annullamento dei barbari, bucolico risorgimento.

“Dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti,

dai boschi, dall’arse fucine stridenti,

dai solchi bagnati di servo sudor,

un volgo disperso repente si desta;

intende l’orecchio, solleva la testa

percosso da novo crescente romor”, scriveva Manzoni.

“E un popolo di morti surse cantando a chiedere la guerra”, cantava Carducci, aggiungendo: “E un re a la morte nel pallor del viso sacro e nel cuore [Carlo Alberto] trasse la spada”.

E Goffredo Mameli, immortalando il grande auto inganno, diventò l’inno nazionale con questi versi:

«Fratelli d’Italia,

l’Italia s’è desta,

dell’elmo di Scipio

s’è cinta la testa.

Dov’è la vittoria?!

Le porga la chioma,

ché schiava di Roma

Iddio la creò.»

Mameli, genovese di padre sardo, morì poco più che ventenne combattendo per la Repubblica romana di Mazzini e Garibaldi. La Rai gli ha dedicato una fiction dove lo fanno parlare con accento calabrese, evviva l’integrazione.

Le cose stanno ben diversamente. Facciamo un passo indietro di 3 mila anni, quando sulle rive del Tevere si forma una aggregazione di tre popoli, etruschi, sabini e latini.

Questi ultimi erano i meno esperti e attrezzati ma erano i più numerosi, assorbendo nei loro ranghi sbandati, profughi e l’intera popolazione primitiva che occupava il colle Aventino (i liguri). Fu l’inizio dei due grandi blocchi sociali, patriziato e plebei, di una contrapposizione che dura ancora oggi e della versione più antica del reddito di cittadinanza.

Per secoli i romani estesero il loro dominio sull’Italia, sempre cooptando nelle loro file i popoli conquistati, con una differenza fra nord e sud. A nord i romani praticarono una politica di colonizzazione forzata, espropriando le terre di liguri, galli e veneti per distribuirle ai veterani (ne fu vittima il padre di Virgilio), al sud prevale la proprietà delle grandi famiglie romane, causa storica del latifondo. La Sicilia era il granaio di Roma fino alla conquista dell’Egitto.

Così comunque si formò o meglio formalizzò l’identità italiana, basata sul sostrato di una popolazione vecchia di migliaia di anni e poi travolta, poco prima del mille, dalle invasioni di etruschi, latini, veneti, sabini, bruzi, quando a oriente una catastrofe climatica spinse a ovest gli indo-europei e i popoli del mare nel Mediterraneo.

Per secoli l’Italia e Roma vissero di rapine, il bottino delle conquiste, e delle tasse pagate dal resto dell’impero, ben più ricco dell’Italia quanto a agricoltura e traffici.

I nostri antenati schiavi o guerrieri longobardi

Dalle guerre e dalle conquiste fluivano in Italia migliaia e migliaia di schiavi che venivano sparpagliati nelle campagne a coltivare la terra. Da loro molti di noi discendono.

Erano così numerosi che un cinico proprietario romano arrivò a dire: “Costano tanto poco che conviene comprarne di nuovi piuttosto che sprecare soldi per nutrirli”.

Poi vennero la pace di Nerone e la fine delle conquiste, la peste (anno 165), le invasioni barbariche, le guerre di Costantinopoli per riportare l’Italia sotto l’impero,

E stato calcolato che la popolazione italiana fosse ridotta nell’anno 500 a 4 milioni di persone, scesi a 2 milioni e mezzo nel 650, quando in Italia arrivarono (568-569) i longobardi. I longobardi erano in tutto 200-259 mila, inclusi vecchi, donne e bambini.

Un longobardo per dieci italiani o meglio il residuo di popolazione che si può immaginare per metà autoctona: meglio conservati i liguri per la poca appetibilità della loro terra tanto che i longobardi si cimentarono nella conquista un secolo più tardi, e metà dí schiavi multietnici.

I longobardi stavano sopra, a formare la nuova classe dirigente nobiliare, gli italici a lavorare.

Ne emerse un popolo italiano rappresentato dagli eredi degli invasori longobardi. Due donne mito, Matilde di Canossa e Santa Chiara d’Assisi appartenevano chiaramente a quel ceppo. E se pensate al loro nome, Guido, lo stesso di Guido Visconti dux Ligurum, anche Cavalcanti e Guinizelli e il loro dolce stil novo ne fanno parte (per non dire di Dante Alighieri).

Fu un periodo di amalgama durato secoli, un melting pot ante litteram da cui uscì la nuova Italia, con i pregi dei nuovi e gli handicap dei vecchi: fu Diocleziano, nel III secolo, a inventare le corporazioni, non Mussolini.

Published by
Marco Benedetto