Trenta anni prima di Porro, Sallusti e la Marcegaglia, al telefono col Corriere della Sera, Romiti e Montanelli: il rischio perenne di dire sciocchezze

Pubblicato il 9 Ottobre 2010 - 20:52| Aggiornato il 11 Ottobre 2010 OLTRE 6 MESI FA

Montanelli: "Mi hai trattato da caporale"

A chi dice che l’Italia è nel caos, che non si può più andare avanti così, che siamo allo sfascio, vorrei fare notare che l’Italia non è mai stata così bene, se ci sono dei pm che possono dedicarsi a leggere le cose dette al telefono da giornalisti; se il presidente della Confindustria  per queste minacce dichiara letteralmente guerra, trascinandosi dietro una categoria che pensavamo sopraffatta da problemi come la competitività, il costo del lavoro, il pericolo giallo, se tutta la stampa italiana  dedica colonne e colonne per informare il paese di queste varie…cose assortite.

Premetto che non conosco personalmente Alessandro Sallusti, anche se lo ritengo un ottimo giornalista e un eccellente polemista, ma devo anche confessare, sperando di non farmi altri nemici, che, quando Giulio Anselmi dirigeva l’Espresso e mi informò della sua intenzione di prendere Sallusti come vice direttore, gli feci notare che dal percorso professionale non mi pareva proprio, come dicono i cacciatori di teste, il profilo ideale per quel posto. Credo quindi di essere in grado di avere una posizione imparziale.

Non conosco personalmente Nicola Porro, anche se leggo i suoi articoli sempre con interesse, ma devo dire che è stato un po’ incauto a fare quella telefonata. C’era del sadismo, nella sua voce, che tradiva un crudele piacere a sentire il terrore nella gola dell’interlocutore confindustriale. Ma ha pagato abbastanza, forse troppo caro quel divertimento.

Avendo fatto per alcuni anni, alla fine dei ’70, il capo ufficio stampa della Fiat, ricordo bene la violenza degli attacchi che arrivarono sui giornali, in quegli anni, soprattutto dal Corriere della Sera e dintorni. Nessuno si prese mai la briga di preannunciarli. Erano bombe che ti scoppiavano tra le mani alle prime luci delle albe polari torinesi e poi uno, ma solo dopo, da Milano  ti spiegava a mezza voce: “Ci hanno ordinato di attaccare perché hanno visto che ci date troppo poca pubblicità”, un altro: “Mi spiace, ma me lo hanno ordinato”, un altro ancora: “Vista la vostra reazione Tassan Din ha ghignato: siamo potenti”. Erano i tempi in cui direttore generale del gruppo del Corriere era Bruno Tassan Din, che esercitava poteri assoluti, forse per conto proprio forse in nome e per conto della allora ubiqua P2 (l’episodio precede la scoperta degli elenchi di Castiglion Fibocchi).

Un altro devastante attacco arrivò alla Fiat da un settimanale, diretto da un carissimo amico, l’articolo scritto da un carissimo amico, scoprii la fonte dopo vent’anni, ormai non serviva più, se non per ricordarmi che ci sono pochi grandi uomini che sfuggono alle bassezze delle coltellate alle spalle, delle delazioni, della vendetta.

Erano tempi bui, quelli, ma devo dire che era davvero altra gente. Altra stoffa, altro spessore, altra classe rispetto ai leader industriali di oggi. Spesso, guardando al passato, si è portati a dire “quelli erano giorni…”, però me ne considero indenne . Guardo solo ai fatti: con tutto quel che rovesciarono addosso alla Fiat e ai suoi vertici, mai gli Agnelli (Gianni e Umberto) o Romiti parlarono di andare in tribunale, al massimo ci furono delle sferzanti battute che non portarono molta fortuna all’Avvocato. Ma nessuno andò a piangere da mamma.