Il romanzo del Nobel Herta Muller: i tedeschi di Romania, tra nazisti e gulag

Pubblicato il 1 Ottobre 2012 - 14:40 OLTRE 6 MESI FA
Herta Muller, premio Nobel per la Letteratura, romena che scrive in tedesco

ROMA – E’ la lingua dei diseredati, la voce degli spossessati quella di Herta Müller: sta scritto nella motivazione dei giurati che le conferirono il premio Nobel per la Letteratura nel 2009, è il marchio del suo stile nella grana della sua poesia originale, nella franchezza della sua prosa rivelatrice. Lo conferma il suo ultimo libro, “The hunger angel” (potremmo tradurlo “L’angelo della fame”), appena recensito dal New York Times in occasione della presenza della grande scrittrice negli Usa per il PEN World Voices literary festival.

Nata nel 1953 in un minuscolo villaggio transilvano, piccolo mondo di una comunità di antica discendenza tedesca confinato nel recinto romeno, da bambina aveva più familiarità con pascoli e greggi che con libri e istruzione. Imparò allora a dare un nome a tutte le cose, un nome proprio per ogni nuvola passeggera, un’identità certa per ogni fiore raccolto. Una difesa, sia pur inconsapevole e infantile, contro l’isolamento linguistico e la diffidenza romena nei confronti della minoranza tedesca. Diffidenza feroce ma non immotivata, se la stessa Müller ricorda con sgomento il servizio del padre con le SS durante la guerra e i sinistri motivetti nazi cantati allegramente nel villaggio.

Non dimentica però i 5 anni passati dalla madre in un gulag alla fine della guerra. Capiva che la sua famiglia era stata dalla parte degli “assassini”, ma il prezzo pagato per questo lo doveva intuire da velate allusioni, da frammenti di notizie sfuggiti alla nonna: la madre non le raccontò nulla. Seppe però che il “bruttissimo nome, Herta, apparteneva a una sua compagna di lager. Non sapevo cosa fosse un campo, ma ero circondata da cose che avevano a che fare con i campi”.

L’ultimo libro complica il quadro drammatico del passaggio da una dittatura all’altra, del coinvolgimento degli individui con le polizie segrete, le delazioni, la manipolazione degli eventi, il soggiacere impotente degli individui alla forza schiacciante della Storia. Iniziato in collaborazione con il poeta di origine tedesca Oskar Pastior, scappato in Occidente nel ’68, (diciannove anni prima Herta sarebbe fuggita in Germania, prima della fine di Ceaucescu), il libro si avvantaggia della testimonianza di uno scampato al gulag sovietico destinato ai tedeschi. Solo dopo la sua morte, nel 1996, Müller scopre che Pastior era stato a libro paga della Securitate per anni. Così come, del resto, i suoi vicini, l’insegnante “amico” della scuola d’infanzia dove lei lavorava, il direttore del teatro di Timisoara: tutti la spiavano e riferivano alla polizia segreta.

Perché ha scelto di terminare il romanzo una volta conosciuta l’attività di Pastior? E’ stata una scelta difficile, se fosse stato ancora vivo avrebbe mollato. “Eravamo diventati molti amici, non avrei mai potuto immaginare una cosa del genere. Tuttavia, ancora negli anni ’50, rifiutare la collaborazione poteva costare vent’anni di prigionia. Come pensare che qualcuno uscito da un gulag potesse dire no: un ricatto insostenibile per un fuoriuscito dal gulag”. Resta, per fortuna, la prosa scintillante e kafkiana di Herta Müller, il retaggio poetico dello stile. Quello stile di una tedesca in Romania, poi straniera anche in Germania, dove a stento riconoscono il suo strano tedesco. Il suo lessico inventato, pieno di “portmanteau” linguistici, quelle parole veicolo dove salgono due o più significati. Come l’appartenenza negata dentro una lingua straniera a se stessa.