Tasse diverse a seconda dell’età: più sei giovane e meno paghi

di Riccardo Galli
Pubblicato il 10 Maggio 2011 - 15:57 OLTRE 6 MESI FA

foto Lapresse

ROMA – Meno tasse per i giovani e più per i vecchi. Meno tasse da pagare per le aziende che danno lavoro ai giovani e costi più alti per chi invece retribuisce signori di mezza età. Potrebbe essere questa una della soluzioni, o almeno una parte di esse, al problema della disoccupazione giovanile nel nostro paese. In Italia, nella fascia d’età fra i 16 e i 24 anni, solo un ragazzo su quattro lavora. In Germania, negli Stati Uniti e nella media dei Paesi europei, uno su due. I ragazzi italiani sono quelli che meno cercano lavoro (cioè la partecipazione alla forza lavoro è più bassa che in altri Paesi) e, tra quelli che lo cercano, sono quelli che meno lo trovano (cioè il tasso di disoccupazione è più alto). La partecipazione alla forza lavoro in questa fascia di età è il 30 per cento in Italia, contro il 51 per cento della Germania, 41 della Francia e 56 degli Stati Uniti.

La disoccupazione giovanile è oltre il 25 per cento in Italia a fronte del 19 per cento nell’area Euro, 18 per cento negli Stati Uniti, 10 in Germania. La differenza tra Nord e Sud esiste, ma non è sufficiente a spiegare il problema. La disoccupazione giovanile al Centro-Nord è vicina alla media europea, mentre è molto più alta al Sud. Ma non è solo Sud. Anche al Nord la partecipazione dei giovani alla forza lavoro è più bassa rispetto al resto d’Europa. Il problema è italiano, non del Meridione. Per questo servirebbero risposte e misure nazionali capaci di riformare il mercato del lavoro. E una di queste, studiata negli Stati Uniti da una commissione presieduta dal premio Nobel Peter Diamond, potrebbe essere quella di modulare la pressione fiscale sull’età del contribuente. Ipotesi e proposta riprese e spiegate da Alberto Alesina e Raffaele Giavazzi sulla prima pagina del Corriere della Sera.

Probabilmente non è “la soluzione”, ma potrebbe esserne una parte. Ci sono altre riforme da fare ma la tassazione modulata sull’età, e dimostrazione ne è l’interesse che anche altri paesi gli hanno dedicato, può essere un tassello importante. Le idee su come riformare il nostro mercato del lavoro per facilitare l’inserimento dei giovani non mancano, ma qualunque proposta si scontra con un ostacolo politico apparentemente insormontabile: l’elettore medio italiano, cioè colui che determina chi vince le elezioni che è sempre più anziano. Se le riforme che favoriscono i giovani richiedono qualche sacrificio agli adulti, è difficile che siano sostenute da partiti e sindacati la cui fortuna dipende dal voto e dall’influenza degli anziani. La società italiana è una società cristallizzata e miope. Cristallizzata perché gli anziani, e le strutture che li rappresentano, difendono strenuamente le posizioni senza rendersi conto, o forse rendendosene persino conto ma infischiandosene, che così facendo discriminano letteralmente i giovani.

Non sono i governi che si sono succeduti negli ultimi annigli unici colpevoli di questa inazione, è l’elettorato che li ha eletti che così gli chiede. Ciò ovviamente non significa che i genitori italiani non siano interessati al futuro dei propri figli. Ma si è purtroppo creato un equilibrio squilibrato per cui i genitori si occupano del benessere dei figli attraverso la famiglia, mentre come società adottiamo politiche che rendono difficile ai giovani rendersi economicamente indipendenti. La famiglia è diventata il meccanismo di protezione dei giovani. Il lavoro sicuro (prima) e la pensione (dopo) del padre assicurano un minimo di supporto per figli precari. La loro sopravvivenza è assicurata, la crescita, il dinamismo ed il futuro dei giovani stessi no.

E allora la modulazione della pressione fiscale su criteri anagrafici, oltre che su criteri redistributivi, legata ad una riforma dei contratti nazionali di lavoro, potrebbe essere la chiave per sparigliare le carte. La flessibilità, che in Italia è sinonimo di precariato, andrebbe eliminata. Lo spartiacque tra contratti a tempo indeterminato e a tempo indeterminato è un solco che va riempito. Nessuno ha avuto sinora il coraggio di smantellare il dualismo e passare al contratto unico. La resistenza degli anziani si potrebbe superare non toccando i vecchi contratti e applicando il contratto unico solo ai nuovi assunti. Se lo si fosse fatto quindici anni fa, ai tempi del Pacchetto Treu, durante il primo governo Prodi, la transizione si sarebbe già completata. Nessun governo né di destra, né di sinistra ha avuto la lungimiranza di farlo. Paradossalmente i sindacati sono tra i primi responsabili di questa situazione. Cgil, Cisl e Uil, e con loro i sindacati minori, difendono gli interessi dei loro iscritti, tutti lavoratori a tempo indeterminato. Il mare magnum di precari non ha praticamente voce in capitolo. I sindacati, e ancor prima i loro iscritti, insieme a tutti gli elettori, dovrebbero comprendere che fare qualche sacrificio per agevolare l’ingresso nel mondo del lavoro dei loro figli è un investimento sul futuro. Futuro che non si costruisce aiutando economicamente da padre a figlio, ma che si costruisce aiutando il giovane a diventare autonomo. Altrimenti l’Italia, senza una sostanziale riforma in questo senso, continuerà a non essere un paese per giovani.