Ibra, il ghetto nell’anima: “Mamma mi spezzava il mestolo sulla schiena”

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 13 Gennaio 2012 - 15:41 OLTRE 6 MESI FA

Zlatan Ibrahimovic (Lapresse)

Il compagno scomodo, qualcuno ricorderà questa definizione abbinata a Sandro Curzi, che ne fece anche il titolo di un suo libro. Sostituendo la parola compagno con campione, la definizione calza però a pennello con un personaggio che in comune col direttore di Telekabul non ha nulla: Zlatan Ibrahimovic. Ibra, campione lo è di certo, ha vinto di tutto di più ovunque abbia giocato. Che sia scomodo poi, è altrettanto noto. Sopra le righe, irascibile, durissimo in campo, a volte scorretto, troppo star, in grado di passare dalla Juventus all’Inter e poi al Milan in pochi anni. Un bad boy insomma, come lui stesso si definisce.

Per provare a raccontarsi Ibracadabra, uno dei tanti soprannomi che gli sono stati affibiati, ha chiesto aiuto a David Lagercrantz, giornalista svedese con la passione per le biografie dei campioni e dei personaggi che non amano gli schemi. Lagercrantz ha esordito nel 1997 con la biografia di Goran Kropp, alpinista svedese, e la sua ultima fatica è “Io, Ibra”, edito da Rizzoli.

Ma Lagercrantz non è né il soggetto né l’oggetto del libro e del racconto. In questa biografia, molto voluminosa considerati i trent’anni e poco più del campione svedese, corredata di fotografie, gli occhi sono tutti per Zlatan. Dalla dedica iniziale al testo, scritto come un racconto in prima persona, come se fosse proprio Ibra davanti ad un pc a comporlo, sino alla lista finale dei successi calcistici che termina con un “continua…” seguito da diverse pagine bianche pronte ad accogliere i nuovi trofei che il ragazzaccio svedese saprà conquistarsi.

All’inizio del testo poi c’è un lungo elenco di tutte le persone, di tutti i personaggi, come lo stesso Ibra li definisce, che sono o sono stati importanti nella vita del campione svedese. E merita una citazione la definizione che Zlatan da del suo attuale presidente Silvio Berlusconi: “Proprietario del Milan e tycoon dell’informazione. L’uomo più potente d’Italia”. Almeno sino all’arrivo di Monti, aggiungiamo noi.

Quella di Ibrahimovic però non è stata una vita facile, o almeno non sono stati facili gli inizi. Figlio di immigrati croati, la madre donna delle pulizie, un quartiere difficile, anzi un ghetto a far da sfondo ad un ragazzo che non sa obbedire e chinare la testa. Una storia che ricorda quella di altri campionissimi, Maradona ad esempio. Storie di un’infanzia difficile in un luogo difficilissimo dove il calcio rappresenta l’ancora di salvezza e il veicolo per un futuro migliore. Quel passato però rimane dentro, non può essere cancellato, e alcuni, anche ad anni di distanza, ne vengono risucchiati, altri riescono a sfuggirgli ma, come dice Ibra “si può togliere il ragazzo dal ghetto ma non il ghetto dal ragazzo”.

E quel ghetto è il quartiere Rosengarden di Malmoe, dove Zlatan è nato. E Ibra deve appunto calcio il riscatto da una vita che avrebbe potuto portarlo sulla via della delinquenza, com’è avvenuto a tanti suoi coetanei e amici di allora.

Non ha avuto, Ibra, una fanciullezza troppo tenera e probabilmente sia l’editore svedese Bonnier che l’estensore del testo David Lagercrantz hanno giocato sul tema commovente del bimbo povero, affamato e negletto, per catturare l’attenzione e la simpatia del lettore. E ci sono riusciti in pieno dal momento che l’autobiografia di Zlatan Ibrahimovic sta avviandosi verso il milione di copie e che se ne sta già stendendo la sceneggiatura per un film, come ha confermato lo stesso Lagercrantz.

Percosse, maltrattamenti, guerra, divorzio, situazione familiare esasperata, droga, alcolismo, indagini da parte delle autorità sociali, interventi della polizia. Di tutto questo Ibra fu spettatore e spesso subì le conseguenze. Scrive: “Spesso tornavo a casa con una fame da lupo e spalancavo il frigorifero, pensando: “Dio, Dio, fai che ci sia qualcosa da mangiare!”. Ma raramente c’era del cibo, nel periodo in cui Ibra stava con il padre: “Provavo un dolore che non dimenticherò mai”. Ma neanche i giorni trascorsi con la madre erano rose e fiori: “Ogni tanto mia madre perdeva il lume degli occhi e ci picchiava con il mestolo di legno e poteva accadere che il mestolo si rompesse. Allora dovevo andare a comprarne uno nuovo come se fosse stata colpa mia a farla picchiare così forte”. A scuola “assunsero un maestro supplementare per colpa mia e si parlava anche di mettermi in una classe per ritardati mentali. Volevano assegnarmi un marchio d’infamia e io mi sentivo come un marziano”.

Non mente ovviamente Ibra quando racconta la sua infanzia. Ma se qualcuno avesse dubbi in merito la cronaca di questi giorni è lì pronta a confermare le parole del ragazzo di Malmoe: “Il modo in cui si sono susseguiti gli ultimi omicidi ha sparso il terrore anche fra i pacifici cittadini, molti dei quali evitano di uscire nelle ore serali e si guardano bene dal frequentare quartieri pericolosi, come quello di Rosengarden (quello di Ibra appunto), dove le autorità svedesi hanno stipato gli immigrati, facendone un ghetto in cui la disoccupazione giovanile arriva al 30 per cento, contribuendo a far affluire gli adolescenti nelle schiere di coloro che vogliono arrangiarsi in qualche modo, non importa se violando la legge. E tutti si armano. Per proteggersi da eventuali aggressori, dicono. Ma in realtà per commettere omicidi, spesso su commissione”. Scriveva La Stampa in un’articolo del 7 gennaio 2012 dal titolo “Gang scatenate, a Malmoe è Far West”.

Tema accattivante ed escamotage riuscito per acciuffare la benevolenza del lettore. Ma Ibra, anche se ora che è padre di due bimbi ed ha raggiunto gli enta sembra aver messo la testa a posto, ha a lungo portato i segni della sua infanzia, del ghetto e del suo carattere nella sua vita come nel campo. Anche i meno appassionati di sport ricordano le sue intemperanze, i litigi con i compagni e gli allenatori, i fallacci di reazione verso chi un fallo su di lui aveva commesso e, ultimo in ordine di tempo, il litigio con Guardiola e l’addio al Barcellona. Proprio da questo punto parte la biografia di Ibrahimovic: da Barcellona, il sogno di ogni calciatore da cui lui è fuggito, o è stato cacciato, perché non riusciva ad omologarsi ad un ambiente troppo “serio”. Giusto punto di partenza perché, forse, rappresenta l’ultimo colpo di testa, non in senso calcistico, del ragazzo venuto dal ghetto. Dopo Barcellona, il Milan e, apparentemente, la maturità.

Voglio dedicare un pensiero anche a tutti i bambini, soprattutto a quelli che si sentono un po’ strani e diversi, che non vengono accettati fino in fondo, e che si fanno notare per i motivi sbagliati. Non essere uguali agli altri è ok. Continuate a credere in voi stessi, come insegna la mia storia alla fine malgrado tutto ciascuno può trovare la sua strada.

Questa la dedica che Zlatan ha posto all’inizio della sua biografia. Una dedica bella, vera, anche se per diventare Ibracadabra non serve solo la perseveranza e la testardaggine, ma anche la fortuna, molta, e il talento.