Ilva di Taranto. Risanare da fermo non si può: equilibrio fra salute e lavoro

di Sergio Cofferati
Pubblicato il 6 Dicembre 2012 - 08:30| Aggiornato il 26 Febbraio 2020 OLTRE 6 MESI FA
Ilva di Taranto (foto Lapresse)

TARANTO – Ilva di Taranto: era difficilissimo immaginare un groviglio più fitto, fatto di nodi politici oggettivamente difficili da sciogliere, fatto di contrasti imprevedibili tra poteri dello Stato, appesantito ulteriormente dagli effetti, figli di interventi ritardati sugli impianti, prodotti su ogni versante: politico, economico, sociale e istituzionale. Proviamo a mettere in ordine (sarebbe meglio dire in sequenza) i fatti principali.

Da anni Ilva, il più grande impianto siderurgico italiano lavora ignorando o, nel migliore dei casi, aggirando alcune importantissime regole ambientali o di sicurezza. Il mancato rispetto dei divieti e delle soglie ambientali ha prodotto danni rilevantissimi alla salute di molti cittadini del territorio che ospita l´impianto, la città di Taranto, e di una area ancora più vasta.

Questo quadro negativo si è creato ed esteso in ragione di una evidente responsabilità dell´impresa e della altrettanto chiara responsabilità dei soggetti istituzionali che dovevano controllare e non l´hanno fatto a sufficienza o non l´hanno fatto per niente

Il tema è “esploso” all’attenzione dell’opinione pubblica e degli interessati (lavoratori e cittadini) per intervento della magistratura e non per recupero di attenzione e responsabilità degli attori principali. Per rapidi passi successivi la magistratura ha disposto il fermo e il sequestro degli impianti per attivare gli interventi di risanamento necessari e commisurati all’entità e diffusione dell´inquinamento e ai suoi effetti sulla salute dei lavoratori e dei cittadini. Questa decisione ferma a tempo indeterminato l´impianto di Taranto e priva di semilavorati gli stabilimenti collegati come Genova e Novi portandoli al blocco in assenza di fonti alternative di rifornimento.

Questa concatenazione di scelte ed effetti ha creato fortissime tensioni sociali. Solo a questo punto, dopo un lunghissimo e incomprensibile traccheggiamento è concretamente entrato in campo il Governo con un complesso e delicato provvedimento che ha la forma del decreto. Il decreto, tra le altre cose, trasforma in legge il testo dell´AIA europea aumentandone le soglie e anticipandone i tempi di applicazione, dissequestra ovviamente gli impianti e i prodotti, impone gli investimenti di risanamento all´azienda e introduce la figura di un garante per l´intero processo.

È evidente e clamoroso l´incrocio tra il decreto legge e i provvedimenti della magistratura. Si tratta di una situazione delicata, inedita, dove può allignare il conflitto di competenza, la linearità costituzionale e forse altro ancora.

Ma il tema più importante è il giudizio di merito che divarica il decreto dalle ordinanze. In estrema sintesi il decreto sostiene che si può bonificare e risanare con gli impianti in marcia e dunque con i dipendenti al lavoro e a questo obiettivo indirizza tutti i suoi contenuti.

Le ordinanze sostengono che la situazione ambientale e i rischi per la salute dei lavoratori e dei cittadini sono così alti e gravi che solo un intervento in profondità a impianti rigorosamente fermi può produrre effetti positivi.

Devo dire che, alla luce dei dati resi noti e del principio di cautela, la fermezza nella loro posizione dei magistrati è facilmente comprensibile e condivisibile. Il vero problema dunque non é il conflitto di competenze o la costituzionalità del provvedimento, aspetti ovviamente da non sottovalutare in alcun modo, sia per il presente che per il futuro. Il dramma è, credo, nella impossibilità concreta di applicare l´indicazione della magistratura. E non per ragioni economiche.

Certo la mancanza di acciaio in misura così rilevante avrebbe effetti pesanti e costosi per intere filiere di trasformazione. Il mercato é “stretto” perché da lungo tempo le aziende lavorano con il modello “just in time”, senza scorte. Un incremento di capacità produttiva nel settore, proporzionale al venir meno dell´acciaio di Taranto non può essere immediato e presuppone anche investimenti rilevanti nella aziende potenzialmente interessate.

Questa nuova capacità produttiva diventerebbe poi immediatamente sostitutiva di quella tarantina, anche perché il tempo dell’incremento di capacità, per quanto questo sia complesso, sarà più breve del risanamento ambientale che si dovrebbe avviare. È superfluo fare rilevare che i prodotti di Taranto interessano una vasta area del manifatturiero nazionale e dunque il loro effetto sul sistema produttivo e sul suo valore è assai più ampio di come potrebbe apparire a un sommario esame.

Ma é il tema sociale quello più delicato. Come in tutti i sistemi monoculturali, non esiste alternativa credibile al lavoro e all’occupazione garantita da colosso siderurgico e dal suo vasto indotto. La mancanza di questa certezza e il venir meno “della produzione di reddito e ricchezza” renderebbe, paradossalmente più difficile il risanamento necessario.

Non credo, per questo, che sia utile disquisire sul rapporto tra poteri, ma pragmaticamente trovare un equilibrio tra diversi soggetti sul merito per garantire quello che opportunamente il presidente dell´ANM ha chiamato il contrasto tra due diritti, quello alla salute e quello al lavoro.

P.S.: le vicende giudiziarie relative sono la conferma delle gravi responsabilità e delle colpevoli omissioni. È utile non scordarlo.