Bersani, e lo chiamarono “Il Peggiore”. Tutto a mare per fermare Renzi

di Lucio Fero
Pubblicato il 18 Aprile 2013 - 17:06| Aggiornato il 27 Gennaio 2023 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Nel Pci Palmiro Togliatti lo chiamarono con sfrontatezza: “Il Migliore”. Nel Pd Pier Luigi Bersani lo chiameranno a breve con mestizia…Il Peggiore. La politica è cosa più complessa, profonda e molteplice di una singola personalità, abilità, prontezza, intuizione, fortuna. Però Pier Luigi Bersani votato candidato premier alle primarie del centro sinistra, mancato vincitore delle successive elezioni di febbraio, mai incaricato davvero di formare un governo, premier immaginario e quindi regista e responsabile del Pd nella partita per il governo e per il Quirinale ha infilato una sequenza di azioni, mosse, scelte, scatti e surplace tale da evidenziare insipienza. Sì, insipienza oltre che a difficoltà, sfortuna, enormità dell’impresa. Insipienza, cioè errore di sbaglio, cioè proprio una responsabilità personale in una “striscia” di sconfitte e di…risultati inutili.

Frutto e segno di insipienza è stata la scelta di accordarsi con Berlusconi e Monti per Franco Marini presidente della Repubblica. Franco Marini non c’entra, ma è stato un disastro. Ed era un disastro talmente evidente prima ancora che si verificasse che l’unica cosa di cui va chiesto conto a marini è come abbia fatto a farcisi infilare dentro il disastro. Che era disastro lo vedeva anche un bambino. Bersani no, non lo ha visto. L’operazione Marini è naufragata al varo, come una nave di carton gesso che affonda per il colpo subito dalla bottiglia inaugurale. Capitano, coraggioso ma incosciente, determinato ma annebbiato, dell’operazione è stato Pier Luigi Bersani. È affondata al varo, ma mettiamo avesse preso il mare…

In quel caso Bersani avrebbe eletto con un po’ dei suoi voti il presidente delle Repubblica votato in massa dalla destra, ogni tipo di destra: quella di Berlusconi, quella di Maroni, quella di Monti. Non male come operazione politica quella di portare i voti di parte del Pd come aggiuntivi a quella della destra oggi in Parlamento chiara minoranza. Ripetiamo: qui non c’entra Marini che è e resta degna persona. E non c’entra neanche Berlusconi, almeno non per ora. Qui c’entra solo e soltanto Bersani: ma come si fa  trovare un accordo che unifica tutti gli altri a destra e divide, anzi stradivide i tuoi? Ci vuole del lavoro, dell’applicazione, dell’ingegno.

Mettiamo avesse preso il mare la nave di Bersani. Capitan Bersani riuscito nell’incredibile e finora mai riuscita a nessun altro impresa di avere contro elettori e nomenklatura del Pd in un colpo solo. Contro l’operazione Marini, Matteo Renzi e i molti che per Renzi vogliono votare, contro sia chi sta con Renzi perché è “la destra del Pd”, sia quelli che tanno con Renzi perché Renzi è “il nuovo del Pd”, tutti contro Bersani. E al fianco dei “renziani” di destra e di sinistra, Veltroni e coloro, molti che votarono Pd perché era quello di Walter Veltroni. E al fianco dei renziani e veltroniani, quelli che votano Pd perché c’è D’Alema. E al fianco di Renzi, Veltroni e D’Alema, contro Bersani anche gli “ulivisti” sempre orfani di Romano Prodi. E al fianco di tutti questi anche i neo supporter di Rodotà e al fianco anche quelli di Vendola e al fianco anche quelli dell’accordiamoci con Grillo. Ci vuole scienza per unificare contro se stesso Renzi, Veltroni, D’Alema, Prodi, Vendola, Rodotà, Grillo. Bersani l’ha fatta almeno in un luogo l’alleanza di tutta la sinistra con M5S: contro Bersani.

Ci vuole scienza, anche la scienza dell’insipienza. Perché lo stato di necessità e difficoltà non spiega neanche alla lontana il capolavoro politico di “Sgurgola val bene un tesoro“. Perché Bersani a sua spiegazione non può invocare neanche il super classico “Parigi val bene una Messa”. Qui “Parigi”, cioè il governo, nemmeno c’è. Se Bersani non mente il governo di “larghe intese” con Berlusconi non c’era nel patto. E quindi non c’era contro partita. “Parigi” allora era, è ancora quel governo Bersani cui Bersani agogna, quel governo che, anche se fosse, sarebbe un governo cui Berlusconi può accendere o spegnere la luce come e quando gli pare? È questa “Parigi” cui sacrificare un patrimonio, un tesoro, l’intero Pd, fino al punto di spingere, di suscitare nel suo elettorato lo “stavolta non ti voto più neanche io”? In politica si sacrifica ogni cosa se c’è contropartita adeguata, anzi superiore al sacrificio. Ma stavolta, nel caso Bersani, con tutta evidenza non c’è. Dunque Bersani a cosa sacrifica?

Non crediamo sacrifichi a se stesso, alla sua voglia di “sedia” a Palazzo Chigi, a quella su cui non si siederà e che comunque sarebbe stata una mezza sedia. No, Bersani non sacrifica a questo totem, anzi se da questo totem è rimasto a lungo ipnotizzato. Bersani sacrifica alla “ditta”. E sacrifica alla “ditta” che cosa? La “ditta”. Pur di non cedere la leadership del Pd a Renzi, pur di non vedere “la ditta” rilevata, espropriata da “quelli”, Bersani e il cerchio del “tortello magico” “la ditta” magari la chiudono ma a “quelli” non gliela danno. E’ questo il nocciolo della strategia, dell’umore, della politica, perfino dell’etica politica di Bersani e dei suoi consiglieri: qualunque cosa pur di non subire invasione e cambio dei connotati. Andava bene, anzi benissimo il governo con Grillo, andava bene, anzi benissimo il presidente della Repubblica con Berlusconi, andrebbe bene anzi benissimo un governo del “parti e poi si vede” presieduto dal Pd e tenuto in vita artificiale da Berlusconi e Grillo a turno. Una cosa neanche brutta o bella, indecente o presentabile, una cosa che è…un asino che vola. tutto, proprio tutto pur di non cedere il passo a Renzi e, soprattutto, a quel che Renzi rappresenta. Tutto, perdere la partita del governo, del Quirinale, perdere il Pd, perdere l’elettorato.

L’operazione Bersani, insipiente e disperata, ha come danno collaterale e neanche tanto collaterale l’umiliazione del Parlamento. Eccolo lì questo Parlamento tanto caro al Pd immobile nella sua scheda bianca con M5S che si impadronisce, si trova regalato il ruolo di unico protagonista dell’aula, della piazza Montecitorio, delle televisioni. Non occorreva essere Richelieu o Metternich o Machiavelli per “intuire” che se su 430 parlamentari “tuoi” cento ti votano No, 30 si astengono, e 150 non partecipano al voto l’indomani mattina andrai a sbattere ingloriosamente. Non c’è bisogno di essere Lenin o Ottaviano Augusto per trovare il coraggio di candidare Prodi o Rodotà o chi ti rappresenta senza andare a rimorchio di Grillo.

Non c’è bisogno di essere Churchill o Napoleone per avere il polso di portare a Berlusconi “un” nome e non portagli una ossequiosa rosa da cui lui scelga un petalo e, con quella mossa stessa, condanni l’incolpevole petalo a diventar fiore avvelenato per la sinistra.  C’è invece bisogno di esser gravato di grande fatica unita a personale insipienza, unita ancora all’unica logica del “quello mai a casa mia da padrone” per infilare la sequenza che Bersani ha infilato. Comunque vada a finire, qualunque sia l’oggetto, il governo, il Quirinale, il Pd, la sinistra, Bersani ha avuto in sorte questioni più grandi di lui.