Marco Doria, “comunista-intellettuale” vincitore delle primarie del Pd

di Michele Marchesiello
Pubblicato il 16 Febbraio 2012 - 15:37 OLTRE 6 MESI FA

GENOVA – Ora che tutti si accingono a salire sul carro (così poco trionfale) del vincitore delle “primarie” genovesi, non è inopportuno fermarsi a riflettere sul senso di questa vittoria inattesa e insperata.

Marco Doria è indubbiamente un intellettuale ed è stato un comunista che non ha mai smentito quella scelta.

Ora, è  dai tempi della famosa invettiva pasoliniana ( ‘Io so’, Corriere della Sera del 14 novembre 1974 ) che  gli intellettuali – comunisti per di più – sono stati considerati dalla politica italiana, ma anche dalla classe ‘media’ che quella politica ha sempre sostenuto e condiviso, con sentimenti misti di  diffidenza , relativa – puramente formale – ammirazione, condiscendenza, certezza della loro sostanziale irrilevanza , se non con aperto disprezzo ( ‘La cultura non si mangia’, secondo l’affermazione di un non ancora dimenticato ministro delle finanze). La ragione di questa sostanziale esclusione degli intellettuali dal banchetto della politica, se non in veste di ‘clientes’ o di affabulatori, è nel fatto che essi sono stati da sempre considerati , in Italia, privi di qualunque potere, diverso da quello che si può – insieme – comprare e rendere domestico.

L’intellettuale è sempre stato nella condizione paradossale di ‘sapere’, come scriveva Pasolini, ma di non poter intervenire, perché non assistito dalla politica.

A Genova, finalmente, è accaduta una cosa straordinaria, che supera i confini  della competizione elettorale locale. A Genova è successo che un’intera società civile ( da quella ‘borghese’ e benestante dei cosiddetti quartieri alti a quella ‘proletaria’  e diseredata del centro storico ) si è riconosciuta in intellettuale, ancorché un intellettuale orgogliosamente ‘comunista’: questo riconoscersi – che è stato reciproco – si fonda sulla constatazione , semplice ma trascurata, che l’essere senza potere costituisce di per sé un principio di potere. Chi ‘sa’ ,  può anche cominciare a ‘fare’.

Si comprendono allora il disagio e l’imbarazzo del Pd, erede di quel Pci che Pasolini – pur definendolo ‘ un paese pulito in un paese sporco, un paese onesto in un paese disonesto,un paese intelligente in un paese idiota, un paese colto in un paese ignorante, un paese umanistico in un paese consumistico’ –  riconosceva  non in grado di superare il baratro tra i due paesi: quello affondato nel degrado e nella degenerazione , e quello sostanzialmente intatto e non compromesso. Anche quel Pci era infatti un potere, sia pure ‘altro’ . Oggi il suo erede si è trasformato da potere ‘altro’ in una ennesima versione di potere, e i suoi uomini non sembrano in grado di rinunciare a porsi come uomini di potere.

Non si tratta dunque  – alla luce della serie di sconfitte cui esse hanno esposto e probabilmente continueranno a esporre il PD – di eliminare le primarie o riformarle . La cruda verità che emerge dalle primarie è che esse  mettono a nudo la nullità di un potere autoreferenziale che si esercita in nome di se stesso. E’ la rivincita non di un singolo ‘intellettuale’ sulla politica, ma di una dimensione intellettuale eticamente condivisa al di là delle differenze sociali, politiche, economiche, culturali. E’ questo , forse, il ‘segreto’ del successo di Marco Doria: il non esserci stato alcun segreto, alcun ‘accordo’ o patto per la futura gestione della città. Chi ha votato  per Doria –  per un intellettuale comunista – lo ha fatto per manifestare il proprio dissenso da un tipo di gestione del potere basata sul compromesso e la complicità. Lo ha fatto per una scelta  , prima ancora che politica, davvero intellettuale, da gente che ‘sa’, nel senso di Pasolini, e vuole contribuire ad avvicinare il più possibile il paese reale a quello civile, se non ideale, quale vogliamo sia il nostro.

Doria ha partecipato di buon grado ma senza eccessivo entusiasmo ai festeggiamenti di piazza per questo primo successo. A chi lo invitata a trattenersi ha spiegato pacatamente che il giorno dopo , alle 9 , doveva ‘andare a lavorare’. Da vero intellettuale, non ha detto ‘Devo andare in Università’, così come poco prima aveva detto seccamente che gli sembrava ‘stantia’la domanda sulla composizione della eventuale giunta. Sa bene, il candidato del centro-sinistra – che il suo non è un compito facile. Che proprio nelle file del centro-sinistra possono annidarsi i suoi avversari più pericolosi, non necessariamente quelli ufficialmente sconfitti. Sa che  il suo percorso non verrà segnato solo dai tappi di spumante che – la mattina dopo – costellavano la piazza delle Fontane Marose. Ma, crediamo, lo conforteranno, oltre al consenso ( animale inquieto ed umbratile) , la profonda convinzione intellettuale, la personale probità , l’abitudine al lavoro basato sui fatti e, per quanto possibile, sulla loro verità.