Corruzione da leggi sbagliate, burocrazia, giustizia incerta, troppe liti

di Michele Marchesiello
Pubblicato il 11 Settembre 2012 - 07:42 OLTRE 6 MESI FA

La pubblicazione da parte della Banca Mondiale del dossier ‘doing business’ ( e non, si badi, ‘doing justice’), quando lo si confronti con l’indice di percezione della corruzione a cura di Transparency International, consente di mettere a fuoco con maggior precisione quella che si è ormai soliti chiamare la ‘questione giustizia’ in Italia.

Emergono dai due documenti tre dati fondamentali che occorre mettere in relazione tra loro.

Il primo dato è costituito dall’altissimo indice di litigiosità che – in Europa – vede l’Italia seconda solo al Belgio, con 5.000 cause civili ogni 100.000 abitanti, iscritte annualmente ‘ a ruolo’ .

Il secondo dato riguarda la lentezza della giustizia civile, per la quale il nostro paese vanta un primato assoluto.

Il terzo dato viene dalla classifica della percezione della corruzione ( dove ‘percezione’ implica un rapporto di sostanziale coincidenza con la realtà): ancora una volta contendiamo l’ultimo posto (o il primo a seconda dei punti di vista ) nientedimeno che alla Grecia.

I tre dati, visti in trasparenza, giustificano ampiamente la diffidenza dei mercati e dei capitali internazionali quando si tratta di ‘doing business’ in Italia. Ma, allo stesso tempo, ci dicono quanto sia difficile, nel nostro Paese, il ‘doing justice’.

Fare giustizia e fare affari si scontrano tra di loro ma anche con le medesime difficoltà: litigiosità eccessiva, lentezza dei processi, corruzione endemica.

E’ anche troppo evidente il legame tra litigiosità e lentezza dei processi. E’ chiaro infatti che il continuo , esasperato ricorso alla lite giudiziaria non può che contribuire in modo decisivo all’ingolfamento di un sistema già di per sé vecchio, sotto-finanziato, ancora ispirato in gran parte al principio del ‘fare giustizia’, letteralmente ‘a tutti i costi’, anziché al principio del favorire il business. La gente litiga da noi per ‘sconfiggere’ l’avversario e conquistare a caro prezzo la palma di una verità giudiziaria spesso incerta, contraddittoria, incompleta.

Litigiosità e lentezza dei processi, uniti alla farraginosa imprevedibilità della macchina burocratico-amministrativa , contribuiscono poi, potentemente, alla ricerca di scorciatoie che finiscono spesso per passare attraverso la corruzione. Ma l’atteggiamento della ‘legalità’ istituzionale nei confronti della corruzione non può essere solo di tipo pedagogico-repressivo: essa deve sempre più misurarsi con la corruzione su di un piano, per così dire, concorrenziale, dimostrandosi più conveniente, efficiente, giusta.

Non è un dato fatalmente antropologico quello che contraddistingue i ‘vizi’ del nostro modo di fare giustizia. Non siamo condannati alla litigiosità esasperata, ai tempi ‘biblici’ dei procedimenti giudiziari, allo scambio illegale di favori e prestazioni.

Occorre, piuttosto, intervenire in modo sistematico nei confronti delle condizioni che inducono e determinano quei vizi. La litigiosità deve cedere alla ricerca della conciliazione e della mediazione. Il ricorso alla macchina giudiziaria deve diventare un rimedio estremo, concentrato nei tempi e nelle forme. La corruzione deve essere, prima ancora che combattuta, ‘battuta’ sul terreno decisivo dell’efficienza e della convenienza. Uno Stato efficiente e poco burocratico condanna la corruzione a diventare una pratica rischiosa e troppo costosa.

Purtroppo la strada delle riforme non sembra avere preso di mira questi obiettivi. La mediazione, resa paradossalmente obbligatoria, è stata vista soprattutto come uno strumento per ridurre il carico dei processi arretrati, piuttosto che come un modo diverso di fare giustizia, ispirato alla necessità di riportare la pace tra i cittadini (‘ne cives ad arma veniant’, dicevano i Romani a proposito della funzione della legge).

La lentezza dei procedimenti deriva, oltre che dalla esasperata litigiosità, da una visione della giustizia che le affida il compito di accertare la verità: missione difficile, spesso impossibile, che non ha nessun riguardo per l’elemento tempo e per le esigenze del business. Una vera riforma dovrebbe essere ispirata alla necessità, per le parti, di risolvere le loro controversie ( o addirittura di evitarle ) nel modo e nei termini più brevi, semplici ed economici. Occorre rendere il più possibile ‘finale’ il giudizio di primo grado e del tutto eccezionali gli appelli e i ricorsi in Cassazione. A questa esigenza non risponde la scelta di sottoporre appelli e ricorsi a un preventivo giudizio di inammissibilità ( a sua volta impugnabile) che richiede lo stesso tempo e la stessa attenzione che i giudici dedicherebbero normalmente allo studio di una causa e alla stesura della relativa sentenza.

Quanto alla corruzione e alle forme di illegalità diffusa che caratterizzano la vita sociale del nostro paese, occorrerebbe affiancare all’atteggiamento pedagogico-repressivo ( quello dell ‘lotta’ senza quartiere alle varie forme di criminalità economica e fiscale ) un atteggiamento che sappia guardare obiettivamente all’ illegalità quando essa si presenta come la scelta dell’estremo male a cui ci si piega quando falliscono i rimedi estremi della giustizia.