Giorgio Santacroce in Cassazione: perplessi e preoccupati

di Michele Marchesiello
Pubblicato il 9 Maggio 2013 - 15:04 OLTRE 6 MESI FA
giorgio santacroce

Giorgio Santacroce: la sua nomina a primo presidente della Cassazione provoca “perplessità e preoccupazione”, scrive Michele Marchesiello

L’elezione di Giorgio Santacroce a primo Presidente della Corte di Cassazione suscita perplessità e preoccupazione.

A giustificarle non è la personalità del prescelto (la frequentazione romana dell’avvocato Ceare Previti è stata inopportunamente strumentalizzata), ma sono le circostanze in cui quell’ elezione è avvenuta, vista in concomitanza con altri due avvenimenti: le reazioni ‘politiche’ alla conferma in Appello della condanna di Berlusconi e l’elezione di Francesco Nitto Palma alla presidenza della Commissione Giustizia del Senato.

I tre eventi confermano e rafforzano l’ambigua patologia del tormentato rapporto tra potere politico e giudiziario, diviso tra una contrapposizione che spesso diventa aperta ostilità e una altrettanto forte (anche se meno esplicita ) aspirazione a raggiungere intese fondate su una concezione ancora corporativa della magistratura. Confronto aspro da un lato, inclinazione a negoziare reciproche situazioni di vantaggio dall’altro lato.

L’elezione, per le modalità in cui è avvenuta, testimonia dell’inveterata – e fatale – tendenza della nostra magistratura a interpretare il proprio ruolo politico appiattendosi sugli scenari della politica nazionale, cercando di volta in volta alleanze e benevolenze nei confronti del potere politico nelle sue diverse articolazioni. A questa deformazione corrisponde il dividersi del Csm (ma anche dell’Associazione Nazionale dei Magistrati ) secondo ‘correnti’ che riproducono in fotocopia gli assetti politici tra i partiti: di destra o di sinistra, di centro destra o centro sinistra. Le candidature di Santacroce e del bravo Luigi Rovelli sono state condizionate da questa sempre rinnovata e fatale inclinazione, radicata del resto nell’origine burocratica e ‘funzionariale’ della nostra magistratura.

Questa patologia condiziona da sempre la gestione da parte del Csm e dell’ Anm dell’indipendenza e dell’autonomia dell’ordine giudiziario, pur sancite solennemente dalla nostra Costituzione.

Le reazioni degli esponenti di punta del Pdl alla sentenza della Corte di Appello di Milano, d’altra parte, denunziano come sia la stessa politica ‘politicante’ a considerare la Magistratura – altra patologia apparentemente inguaribile – alla stregua di uno degli attori che si muovono sulla scena secondo l’immutabile regia della contesa-complicità tra le forze politiche e le varie oligarchie che si contendono (o spartiscono) il potere nel nostro Paese.

Viene in mente la famosa frase attribuita a Stalin, a proposito del potere effettivo della Chiesa Cattolica. “ Di quante divisioni può disporre il Papa?”

La nomina di Nitto Palma, magistrato e, insieme, autorevole esponente politico della corte berlusconiana, è emblematica di questa tragica confusione di ruolo: dell’incapacità, da parte di entrambi, magistratura e potere politico, di darsi unì’immagine costituzionalmente corretta del ruolo dell’altro. A seconda dei momenti e degli interessi contingenti, magistratura e potere politico interpretano l’altro come un avversario da ridurre sotto il proprio controllo e tenere in scacco o – piuttosto – come un soggetto col quale negoziare favori, immunità, compartecipazioni alla gestione del potere istituzionale. Quel potere che dovrebbe esercitarsi unicamente in funzione dell’interesse comune della nazione e, soprattutto, nel rispetto dei rispettivi ambiti di competenza, disegnati dalla Costituzione.

L’esperienza, anche quella di altri Paesi, mostra che i rapporti tra giudiziario e governo non sono sempre – ed è bene che non siano sempre – idilliaci o ispirati a rigido rispetto delle forme costituzionali. Flessibilità, disponibilità alla trattativa e alla composizione sono ingredienti indispensabili a quella dialettica. Ciò che non deve mancare, tuttavia, è quello che gli anglosassoni (non a caso proprio loro) chiamano il self restraint tra poteri: la capacità di questi di porsi dei limiti e di rispettarsi nell’inevitabile venire a contatto, anche nello scontrarsi ruvidamente , in vista sempre del bene comune e nell’interesse del Paese.

Corporativismo sfrenato, dominio delle oligarchie, assenza di un controllo effettivo e consapevole da parte di un’opinione pubblica informata , rendono inevitabile il perpetuarsi di un rapporto, più che malato, irreparabilmente degenerato tra potere esecutivo (e schieramenti che lo sorreggono) e ordine giudiziario. Di questa degenerazione i tre avvenimenti sono, ognuno per la sua parte, la drammatica testimonianza.