Tasse, illusioni, tesoretto, evasori alla prova del Monti

di Pino Nicotri
Pubblicato il 26 Marzo 2012 - 07:51 OLTRE 6 MESI FA

Cade, non cade, cade, non cade… Ormai l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ha sostituito la famosa torre di Pisa nelle apprensioni degli italiani in fatto di crolli storici. Per giunta, al tormentone del “cade, non cade” dell’articolo 18 inizia ad affiancarsi l’avvisaglia di un altro tormentone su un altro “cade, non cade…”, riferito questa volta al governo Monti. Come le ciliege, un tormentone tira l’altro…

In attesa di vedere come andrà a finire, qualche considerazione in più può essere utile. A partire dal notare che l’assalto all’articolo 18 è stato preceduto e affiancato dal trionfo dei Robin Hood al contrario e dal trionfo di quel furto legale dei nostri soldi chiamato tassazione ma in realtà più simile all’esproprio. E’ bene anche ricordarsi di quanto già accaduto a Roma 25 secoli fa, quando la plebe stufa di essere affamata dagli usurai e vessata dai patrizi fece ciò che Umberto Bossi minaccia a vuoto da sempre: abbandonò l’Urbe per un intero anno decisa a dar vita a un’altra Roma. Ma andiamo per ordine.

La caduta dell’articolo 18 è in definitiva la caduta dell’ultimo pezzo del Muro di Berlino o almeno dell’Unione Sovietica e della conseguente scomparsa del Partito Comunista Italiano. Anche qui, una caduta ha tirato l’altra. Per molti decenni a partire dal dopoguerra i lavoratori italiani hanno potuto migliorare salari, stipendi, benessere, diritti e livello di vita grazie al fatto che in Italia esisteva un partito comunista che oltre a essere il più grande dell’intero Occidente era una creatura le cui spalle poggiavano sulle robuste mura del Cremlino, suo parente stretto e lord protettore. Purtroppo però l’ideologia e i pregiudizi portarono a caricare sul peso dei “padroni”, cioè sui datori di lavoro, una serie di oneri impropri e lo Stato venne usato solo come elemosiniere e mucca da mungere, con la cassa integrazione a oltranza a favore di licenziandi e licenziati di fatto e con le “pubbliche provvidenze” a favore delle imprese. Lo Stato non venne mai investito della responsabilità dell’aggiornamento professionale per i licenziati in modo che potessero inserirsi velocemente nel mondo produttivo.

Di quell’epoca non è rimasto niente. Ed ecco diventare man mano decrescente il livello di vita e le certezze dei lavoratori salariati e al loro seguito anche della classe media stipendiata, con i contratti a tempo indeterminato sempre più rari. Quella che una volta si chiamava classe operaia viene sempre più frantumata, delocalizzata e affiancata da extracomunitari: un toro fiaccato man mano delle banderillas, in attesa dell’”estoque”, vale a dire dell’infilzata finale sferrata con la spada dal torero. Il torero sarà Mario Monti e la “banderillera” sarà Elsa Fornero? Domanda che si pongono anche i lavoratori, diventati dopo la caduta del Muro di Berlino sempre meno figure professionali qualificate e riconosciute e sempre più forza lavoro. Ovvero: sempre meno soggetti professionali e sindacali e sempre più forza lavoro un tanto al chilo, pura e semplice merce della quale si può contrattare solo il prezzo. Una perdita di quota contro la quale nei giorni scorsi ha finito col far sentire la propria voce perfino la Conferenza Episcopale Italiana.

Parallelamente, in questi anni è andata avanti la rapina legale operata dai vari Robin Hood al contrario: i manager delle grandi banche hanno immesso nel circuito finanziario mondiale, Italia compresa, tanti di quei titoli spazzatura e nelle proprie tasche tanti di quei mega stipendi, bonus e benefits vari, tutti soldi dei risparmiatori, da portare l’intero pianeta sull’orlo del baratro economico finanziario. Eppure, stranamente, i Robin Hood grandi banchieri anziché finire in galera o comunque pagare i loro errori di tasca propria sono stati premiati negli Usa con gigantesche iniezioni di danaro di Stato, una sorta di socialismo per i ricchi e gli straricchi, e in Italia addirittura con l’andata al governo. In compagnia di professori e tecnici vari, ma in totale assenza di politici eletti in parlamento.

Arrivati a palazzo Chigi, i “montanari” di Monti per indorare la pillola dell’aumento delle tasse, aggravato dall’aumento dell’inflazione e dall’eliminazione di vari benefici, hanno tirato fuori la parola magica: “tesoretto”. Inteso però non in senso affettuoso, non come diminutivo della parola “tesoro” rivolto a chi vogliamo bene, ma come neologismo per indicare quelle che rischiano di restare (altre) due chimere:

– la destinazione all’incremento occupazionale giovanile e femminile del maggior gettito fiscale ottenuto, si spera, dalla tanto strombazzata lotta all’evasione e alla corruzione;

– la destinazione del maggior gettito fiscale anche all’obiettivo di pagare tutti meno tasse. Con un’abile sostituzione, lo slogan “lavorare meno, lavorare tutti” è stato trasformato in “pagare tutti (le tasse), pagare meno”. Significativo sintomo dei tempi che il verbo lavorare sia stato sostituito dal verbo pagare….

Intanto però la pressione fiscale media risulta salita addirittura al 55%, tra le più alte d’Europa. Ciò significa che in media ogni italiano che paga le tasse versa allo Stato oltre metà del proprio reddito annuale. Il che non sarebbe un male se lo Stato fornisse in cambio servizi sociali e infrastruttore pubbliche adeguate, come fanno nell’Europa del Nord, a partire dalla riqualificazione dei licenziati perché possano trovare in tempi accettabili un nuovo lavoro decente. Poiché lo Stato continua a non fare nulla di tutto ciò, e neppure a pianificarlo coi fatti anziché solo con le chiacchiere, è legittimo dire che la tassazione andrebbe più correttamente chiamata esproprio se non grassazione. Ed è altrettanto chiaro che anche il governo Monti, esattamente come i predecessori, conta sulla scarsa memoria di noi italiani. Non è la prima volta infatti che la carota del “tesoretto”, sorta di Araba Fenice, viene agitata per far digerire il bastone del fisco.

Il primo a promettere la riduzione delle tasse, affiancato all’aumento delle pensioni minime, è stato Silvio Berlusconi fin dall’ormai lontano e sepolto 1994. In seguito, il governo Amato nel 2000 in cambio dell’asserita lotta all’evasione delle tasse distribuì 30 mila miliardi di lire in sgravi fiscali.

Il primo a parlare di tesoretto, coniando di fatto il termine, è stato il ministro dell’Economia del governo Prodi del 2007 Tommaso Padoa Schioppa: un tecnico anche lui, visto che proveniva dai piani alti della Banca d’Italia. Il ministro usò quella parola per indicare l’extragettito fiscale che almeno in apparenza aveva creato un fondo da destinare, appunto, all’abbassamento delle tasse. Il primo ministro Romano Prodi si inventò per decreto il bonus agli “incapienti”, termine improbabile per indicare le fasce di reddito più basse. In realtà quel “tesoretto” finì come al solito: nelle ingorde fauci della spesa pubblica sempre più fuori controllo.

Con la legge finanziaria dell’anno successivo, 2008, Prodi ci provò di nuovo. Promise che le “eventuali maggiori entrate” sarebbero andate a ridurre le tasse dei lavoratori dipendenti e specificò: “Con un aumento delle detrazioni fiscali non inferiori al 20% per le fasce di reddito più basse”. Non è dato però sapere quanta parte del tesoretto Prodi è servita per ridurre davvero le tasse ai contribuenti deboli e quanta invece a tentare di tappare i buchi della spesa pubblica.

Nella gara a spararle grosse non poteva mancare il Grande Imbonitore, se non altro perché è stato lui a iniziare il gioco con la grande promessa non mantenuta del 1994. Chi si ricorda che le leggi finanziarie 2009 e 2010 del governo Berlusconi prevedevano che “eventuali” maggiori entrate fiscali sarebbero andate questa volta a ridurre le tasse a vantaggio “delle famiglie con figli e dei redditi medio-bassi”. Ovviamente ai lavoratori dipendenti e ai pensionati veniva promessa la priorità…

E così di tesoretto in tesoretto e di promesse in promesse di riduzione delle tasse siamo arrivati ad avere la pressione fiscale tra le più alte d’Europa. Inoltre, a chiarire che un conto sono le chiacchiere e un altra la realtà ha provveduto la Corte dei Conti. Tempo fa ha avvertito che le incertezze riguardo la quantificazione dell'”evasione fiscale” per stabilire l’ammontare del “tesoretto” sono troppe e che tra l’accertamento delle cifre evase e il loro incasso reale da parte del fisco c’è di mezzo la riscossione. Vale a dire, il mare. Formato dal diluvio delle contestazioni e dei contenziosi messi in piedi dall’esercito di chi si vede chiedere dal fisco più di quanto già pagato o non pagato affatto.