I tagli non bastano alla crisi: lo spread in altalena favorisce Berlino

di Paolo Forcellini
Pubblicato il 21 Novembre 2011 - 09:05 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Ora che nel gioco al massacro degli spread ha fatto capolino anche la Francia (superando i 200 punti sui bund, quota poi ridottasi) appare sempre più chiaro che con le misure tampone – qualche decina o centinaia di miliardi in più all’Esfs – non si va molto lontano. Il differenziale francese è oggi prossimo a quello italiano d’inizio luglio: come dire che in quattro o cinque mesi anche Parigi, dopo Atene, Dublino, Lisbona, Madrid e Roma, potrebbe trovarsi nei guai più seri. Ma segnali di peggioramento sono stati percepiti nelle ultime settimane anche per quel che riguarda la remunerazione dei titoli pubblici di Vienna (180 punti) e Bruxelles (310). Vi è insomma la percezione sempre più chiara che restare nella pattuglia dei “primi della classe” dell’Eurogruppo, insieme a Berlino, è sempre più difficile e che solo pochi mesi potrebbero separare la maggior parte dei debiti sovrani dal baratro. Accanto a questa consapevolezza si fa strada il sospetto che l’unica terapia fin qui “consigliata” ai paesi “discoli”, e cioè il rigore di bilancio, le manovre “lacrime e sangue” accompagnate dallo zuccherino di qualche apertura di credito, serva solo a tamponare le falle ma non a evitare un disastro prossimo venturo. E’ ormai chiaro che se nella comunità della moneta europea vi è un paese leader (e come potrebbe non esserci?) un po’ più forte e “disciplinato” degli altri, o quantomeno ritenuto tale dai mercati, i suoi partner sono destinati a rincorrere spread sempre più iugulatori. Oggi la nazione leader è la Germania, domani, se un domani ci sarà per l’euro, chissà.

Nel primo decennio di vita della moneta europea gli spread erano minimi, poche decine di punti. Erano tutti scolaretti a modo, studiosi e superdotati, nella classe della prof di Francoforte, la signora Bce? No di certo. Gli italiani, che erano riusciti a riportare il rapporto debito/Pil poco sopra il cento per cento negli anni di avvio dell’euro, hanno subito preso a risalire la china verso il 120 per cento; i greci truccavano allegramente i conti pubblici prima e dopo il varo della nuova moneta; gli irlandesi permettevano che le loro maggiori banche prestassero denaro a occhi chiusi… E con l’arrivo della crisi nel 2008 a tutti i vizi e gli imbrogli già in essere venivano ad aggiungersi un aumento delle spese pubbliche (in particolare per sostenere i nuovi disoccupati) e soprattutto una decurtazione delle entrate per via della riduzione dei Pil.

Ma se fin da quel fatidico 1° gennaio 1999, quando ci trovammo in tasca la nuova moneta, nell’Eurogruppo vi erano i bravi, i così-così e i pessimi, perché solo negli ultimi due anni si è cominciato a parlare di bocciature, espulsioni, bacchettate? Semplice: perché per un decennio tutti, governanti, mercati, economisti e semplici cittadini di Eurolandia, hanno continuato a credere che per nessun partecipante esistesse il rischio default, proprio in quanto facente parte di quell’ambìto consesso. La crisi del 2008-2009 ha fatto vacillare questa certezza. In alcuni Stati i debiti pubblici sono esplosi a causa delle ingenti iniezioni di denaro ai sistemi bancari in difficoltà oltre che degli interventi per mitigare gli effetti sociali più dirompenti della crisi. Si è cominciato a insinuare il dubbio che questo o quel paese dei Pigs (allora l’Italia era fuori discussione) avrebbe potuto non onorare i suoi impegni, a partire dalla Grecia. Questo dubbio ha cominciato ad assumere spessore e consistenza quando esponenti politici di primo piano della Germania, ma non solo, hanno iniziato a parlare della necessità che i soggetti privati possessori di titoli del debito pubblico ellenico fossero chiamati a sostenere una parte delle perdite in caso di default più o meno pilotato. A questo punto ha assunto concretezza all’orizzonte la possibilità che uno o più paesi dell’euro fallissero, che l’intero sistema-euro si disgregasse. E i mercati si sono mossi di conseguenza, scommettendo sulla solidità o debolezza dei diversi paesi e dando il là al ballo degli spread in mezzo al quale ci troviamo ora.

Ma non è stata solo questione di imprudenti dichiarazioni: i mercati – vale a dire tutti gli investitori – proprio dalle defatiganti discussioni sui fondi da istituire o rafforzare per azioni “limitate” di salvataggio, si sono resi conto che la Bce presentava una crepa grande come una casa: aveva come obbligo statutario la stabilità della moneta e non invece, per volontà tedesca, il ruolo di prestatore di ultima istanza, di estremo acquirente dei debiti sovrani che non trovavano allocazione sui mercati o l’avrebbero trovata solo a interessi troppo elevati. Questa “piccola differenza” dell’istituto di Francoforte rispetto alla Federal Reserve americana o alla Banca centrale inglese o cinese o ad altre ancora, nella nuova situazione di boom dei debiti sovrani ha messo in allarme gli investitori di tutto il mondo: occorreva liberarsi al più presto dei titoli pubblici dei paesi fragili dell’area euro. Di fragile in fragile, la febbre sta contagiando un po’ tutti.

Sarebbe ingeneroso buttare ogni croce addosso ad Angela Merkel o ai suoi ministri per le frequenti, improvvide sparate sul possibile default di questo o quel socio del club euro. Da parte dei governanti tedeschi vi è anche la più che legittima preoccupazione di non dar spago al “moral hasard” di chi ha investito in titoli di paesi con i conti fortemente in disordine, guadagnandoci peraltro dei buoni interessi, confidando che prima o poi qualcuno (la Germania soprattutto) sarebbe arrivato in soccorso per impedire il fallimento di quel paese e dell’euro. Oltre che punire l’azzardo morale vi era e vi è da parte delle autorità tedesche la volontà di non far pagare ai propri cittadini una grossa quota parte delle operazioni di soccorso a paesi dediti alla “bella vita”, a pensionamenti precoci, a privilegi di casta, a un welfare al di sopra dei propri mezzi e così via. Nel corso di un’inchiesta tv di qualche giorno fa venivano interrogati su questi temi cittadini tedeschi. I quali erano tutti alquanto inferociti e recitavano in coro un “leit motiv”: non vogliamo pagare i conti degli altri; chi non sa disciplinarsi va buttato fuori dall’euro. Il comportamento della Merkel sembra assai più moderato e disponibile al compromesso di quello dell’uomo della strada mangiatore di kartoffeln: il cancelliere usa il bastone ma anche la carota, chiede ai reprobi rigore nei conti ma alla fine ha finora concesso il necessario per la sopravvivenza. Il problema più grave sta probabilmente proprio in quel “alla fine”: la Germania e gli altri “primi della classe” tendono sempre a fare il meno possibile il più tardi possibile.

Forse se si fosse annunciato fin dall’inizio “la Grecia deve fare questi cinque sacrifici, costosi socialmente e dal punto di vista del consenso politico, ma se li fa non la lasceremo mai fallire” la storia avrebbe preso un’altra piega e anche le ciambelle di salvataggio sarebbero state assai meno costose. Invece i mercati sono stati tenuti in una continua condizione di fibrillazione, di stress. Quando “alla fine” ci si decideva a sormontare un ostacolo l’intervento aveva ormai perso ogni carica dissuasiva nei confronti della “speculazione”: già un altro pericolo, maggiore, si profilava all’orizzonte. E la fuga dai debiti sovrani continuava, estendendosi dai titoli greci a quelli dei Pigs a quelli dei Piigs e oggi ormai mettendo in discussione l’intera costruzione dell’euro.

L’atteggiamento giusto sarebbe stato ed è quello di concordare una volta per tutte un severo piano di riequilibrio, di monitorarne l’esecuzione (anche limitanto i poteri delle autorità nazionali) e allo stesso tempo di garantire al cento per cento coloro che avevano investito nel debito di quel paese. Non è ancora troppo tardi per cominciare a muoversi su questa strada. Finora, invece, si è passati dall’imporre un piano “lacrime e sangue” al pretendere un ennesimo piano dello stesso tipo, strozzando via via più duramente le economie più fragili e allontanando alle calende greche la possibilità che un po’ di ripresa contribuisca a un riequilibrio strutturale dei conti.

Oltre a non ottenere un miglioramento dei bilanci più disastrati, questi diktat hanno portato a un allargamento degli spread e del numero dei paesi penalizzati dai differenziali. Da un lato, quindi, una ricca Germania – più qualche “satellite” e altri paesi fuori dell’area euro, come la Gran Bretagna – che piazza i suoi bund biennali allo 0,3 per cento e quelli decennali a meno dell’1,8, cioè in pratica gratuitamente, considerato che l’inflazione nell’Eurozona sta intorno al 3 per cento (la prima tranche di prestiti concessa malvolentieri alla Grecia ha fruttato ai paesi prestatori, in primis la Germania, il 3,5 per cento, alla faccia della fraterna cooperazione). Dall’altro paesi come la Spagna e l’Italia che debbono pagare a chi si accolla un po’ del loro debito sovrano intorno al 7 per cento. Se questo divario divenisse stabile ci troveremmo nei prossimi anni, ipotizzando per semplicità uguali Pil e rapporto debito/Pil (in realtà per la Germania il primo è molto più elevato mentre il secondo è un po’ più di due terzi del nostro), a pagare interessi circa quattro volte superiori a quelli della Germania.

E’ altresì evidente che in questa situazione, che si viene via via sclerotizzando e che in futuro potrebbe comportare per noi l’esborso di 130 miliardi di euro di interessi all’anno e quindi la necessità di un enorme avanzo primario per sostenerli, presentare i conti in ordine è molto ma molto più difficile per l’Italia che per la Germania, sempre a parità di ogni altra condizione. Medesimo discorso vale per le relazioni tra Germania e altri paesi dell’Eurozona: in pratica è come se i paesi più disastrati pagassero di tasca loro buona parte del servizio del debito tedesco, anche perché tra gli acquirenti di bund considerati arcisicuri vi sono molti italiani, spagnoli, ecc., che si liberano di Btp, bonos e altri titoli dei rispettivi paesi e si indirizzano ai titoli germanici contribuendo ad abbassarne il tasso. E’ una situazione che ricorda da vicino il rapporto fra paesi sviluppati e paesi del Terzo mondo, quello contrassegnato, secondo alcuni economisti, da uno “scambio ineguale” e, secondo i politici di formazione marxista-leninista, da sfruttamento, imperialismo et similia.

I bassi tassi di cui gode la Germania riflettono solo in piccola quota i “meriti” della nazione di Kant e Goethe, la sua economia competitiva, e in assai maggior misura la possibilità di inserire questi “meriti” in un sistema monetario, quello dell’euro, che è una costruzione bislacca, fatta di un’unica moneta e tante politiche fiscali diverse, di una banca centrale con poteri dimezzati e di tanti debiti sovrani diversi. Se così stanno le cose, a Bonn non conviene tirare troppo la corda, correndo il rischio che si spezzi in seguito al default di qualche Stato. Badando solo al proprio nazionale tornaconto, converrebbe alla Germania mantenere lo statu quo che le consente un significativo trasferimento internazionale di risorse a suo vantaggio.

Questa “furbata” presenta però alcuni pericoli. Per primo quello che gli interventi di soccorso decisi in extremis, come è ripetutamente avvenuto nel caso Grecia e non solo, arrivino in realtà troppo tardi, quando la valanga ha già preso troppa accelerazione, il panico ha già contagiato i mercati. Inoltre la distribuzione a un numero crescente di paesi di dosi massicce di “austerità”, di tagli e aggravi di imposte, finisce prima o poi per deprimere l’economia dell’Eurozona che, in effetti, sembra sia entrata nella seconda fase di una “double dip”, una doppia recessione.

In questa evenienza il gendarme della disciplina contabile finisce anch’esso per farne le spese. E’ proprio quanto sta avvenendo: nel secondo e terzo trimestre di quest’anno la crescita tedesca è stata dello 0,3 e dello 0,5 per cento (per tutto il 2012 si prevede lo 0,8). Inoltre, a tali miserrimi incrementi del Pil non hanno contribuito per nulla le esportazioni, storico punto di forza tedesco e di cui una quota rilevante viene assorbita dall’area euro (qui la Germania realizza l’80 per cento del suo surplus commerciale). Secondo un sondaggio, le previsioni di analisti e investitori germanici sui mercati finanziari sono pessime, in peggioramento per il nono mese consecutivo, mentre gli investimenti industriali crollano. Tra i segnali che Bonn dovrebbe considerare, poi, vi è l’ultima asta dei bund di qualche giorno fa. Le richieste sono state modeste: gli investitori forse cominciano a pensare che rendimenti prossimi allo zero sono fortemente rischiosi nel caso di un ancorché piccolo mutamento del vento che spira sui mercati dei debiti sovrani o del precipitare di una crisi dell’euro.

Soluzioni alla crisi attuale come il “doppio euro”, in pratica due monete, una di prima categoria solo per pochi paesi dotati di fondamentali a prova di bomba e un’altra per i paesi “mediterranei”, sono fanfaluche o comunque non converrebbero neppure alle nazioni più solide. Secondo alcune stime, l’euro “forte” si scambierebbe oggi a circa 1,80 nei confronti del dollaro (l’attuale euro è a 1,35 proprio perché “appesantito” dai paesi con problemi): ciò rappresenterebbe un macigno intollerabile per la competitività delle esportazioni dei primi della classe.

Occorre quindi scegliere con determinazione la strada della riforma dei Trattati, assegnando alla Bce i poteri che hanno tutte le altre maggiori banche centrali al mondo, e fin da subito realizzare alcuni interventi di cui peraltro si sta già discutendo a Bruxelles, come la creazione di “stability bond”, titoli emessi da un’autorità centrale europea in sostituzione almeno parziale delle emissioni nazionali. Al di la delle technicalities, la Germania ha sempre remato contro le varie proposte di eurobond perché ne sarebbe uno dei principali garanti e teme che questo le potrebbe far perdere la tripla A delle agenzie di rating, a causa della “zavorra” rappresentata dai debiti sovrani dei paesi con un voto più basso. Ma le resistenze di questo o quel paese, e soprattutto tedesche, ci hanno portato al punto in cui siamo. Occorre ripartire prendendo la via accennata, nell’interesse di tutti. Per spianare la strada si può ricorrere a un new deal, un nuovo patto: la Germania conceda la sua disponibilità a nuovi strumenti di debito europei e alla riforma della Bce e ottenga in cambio maggiori poteri di intervento europei sull’approvazione dei bilanci nazionali e sui piani di rientro dai debiti pubblici troppo elevati, vale a dire una certa dose di rinuncia alla sovranità nazionale da parte dei “disobbedienti”. Una rinuncia che, anch’essa, farebbe bene a tutti, a cominciare da chi la sopporterebbe, perché renderebbe più facili scelte politicamente costose quanto inevitabili.