Segreto istruttorio non è privacy, pubblicare verbali si può

di Pierluigi Franz
Pubblicato il 9 Marzo 2016 - 10:20 OLTRE 6 MESI FA
Segreto istruttorio non è privacy, pubblicare verbali si può

Segreto istruttorio non è privacy, pubblicare verbali si può (foto d’archivio Ansa)

ROMA – Segreto istruttorio non vuol dire tutela della privacy degli imputati o dei testimoni, serve solo per le esigenze della giustizia, quindi pubblicare verbali si può (se non vengono compromesse le esigenze dell’inchiesta. Così, in nome della privacy, Mediaset fa causa a Repubblica e la perde. Repubblica non ha violato la privacy pubblicando notizie su una inchiesta giudiziaria per violazione delle norme fiscali da parte di Mediaset e nemmeno pubblicando stralci di un interrogatorio dell’avvocato inglese David Mills.

Ci sono voluti 11 anni. La parola fine l’ha messa la Corte di Cassazione nella sua massima espressione giudiziaria, le Sezioni Unite. Vale più di una legge.
La sentenza è importante per i giornalisti e anche interessante per chi si appassiona a questi temi in quanto sottolinea la differenza fra i principi che reggono la giustizia sulle rive del Mediterraneo e in particolare in Italia e quelli che valgono nel tanto citato e poco imitato mondo anglosassone. In Italia la Giustizia è il bene supremo da tutelare con lo Stato che è il suo sacerdote. In Inghilterra e in America il bene supremo è il diritto di ogni cittadino a subire un giusto processo. Che poi questo valga meno se sei nero e povero non inficia il principio. Se i giornali inglesi o americani pubblicassero un decimo di quel che si pubblica in Italia su indagini e istruttorie prima del processo, sarebbero tutti in carcere. Da noi i processi si fanno in diretta, preventivamente, in televisione la sera stessa del delitto.

Le Sezioni Unite Civili della Cassazione hanno fissato un nuovo importante principio giuridico in tema di risarcimento derivante dalla pubblicazione di atti o documenti di un procedimento penale coperti da segreto. E’ stata così definitivamente confermata una sentenza della Corte d’Appello di Roma del 2011. Al centro della disputa era un articolo di Giuseppe D’Avanzo intitolato “Ora il dovere della chiarezza”, pubblicato su “La Repubblica” del 23 marzo 2005. Ma, secondo i supremi giudici, questa notizia non ha violato la privacy, né l’art. 684 del codice penale.

L’articolo di D’Avanzo traeva spunto dall’avviso di conclusione delle indagini effettuate dalla Procura della Repubblica di Milano sulla presunta frode fiscale nella compravendita di diritti televisivi commessa dai vertici di Mediaset e dalle dichiarazioni rilasciate dall’avvocato David Mills. In particolare si sosteneva l’arbitrarietà della pubblicazione su “Repubblica” di due frasi riprese dall’interrogatorio del legale inglese riguardanti Silvio Berlusconi.

Ritenendo diffamatoria e illecita tale pubblicazione per violazione dell’art. 684 del codice penale e delle norme a tutela della privacy e in particolare la riservatezza sui dati sensibili, Mediaset citò in giudizio il Gruppo Editoriale L’Espresso, il direttore di “Repubblica” Ezio Mauro e Giuseppe D’Avanzo. Ma nel 2008 il tribunale civile di Roma respinse la domanda e tale decisione fu poi confermata tre anni dopo dalla Corte d’appello civile di Roma. Identico é stato ora il verdetto finale della Cassazione che ha anche condannato Mediaset al pagamento delle spese legali della controparte.

Trattandosi, però, di una questione di diritto ritenuta di particolare importanza su cui si erano registrate difformi pronunce della stessa Suprema Corte, la questione è stata decisa dalle Sezioni Unite Civili, presiedute da Giuseppe Salmé, che con un’elaborata sentenza di 22 pagine (è la n. 3727 del 25 febbraio 2016), redatte dal giudice Adelaide Amendola, hanno fissato il seguente principio giuridico cui si dovranno ora attenere tutti i giudici italiani:

“Il reato di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale non coperti dal segreto, di cui all’art. 684, commi 2 e 3, del codice penale, ha natura monoffensiva, tutelando solo l’amministrazione della giustizia e non anche la reputazione e la riservatezza del soggetto sottoposto a procedimento penale, sicché la sua sola violazione non legittima un’autonoma pretesa risarcitoria, fermo l’apprezzamento della marginalità della riproduzione alla luce del principio della irrisarcibilità del danno non patrimoniale di lieve entità.”

Si acclude il testo integrale della sentenza.