Nesli contro Fabri Fibra: “Non parlo con mio fratello da 10 anni perché…”

Pubblicato il 18 Luglio 2016 - 13:39| Aggiornato il 20 Aprile 2020 OLTRE 6 MESI FA
Nesli contro Fabri Fibra: "Non parlo con mio fratello ad 10 anni perché..."

Nesli contro Fabri Fibra: “Non parlo con mio fratello ad 10 anni perché…”

MILANO – Nesli, nome d’arte del cantante Francesco Tarducci, non parla con il fratello Fabri Fibra da quasi 10 anni. Una rottura iniziata quando Nesli ha deciso di lasciare la casa discografica, pagando una penale di 100mila euro, per proseguire nella sua carriera da solo.

In una intervista a Vanity Fair il cantautore racconta la storia della rottura con il fratello. Ora Nesli non soffre più dell’etichetta di “fratello di Fabri Fibra”, una storia che ricorda quella dei fratelli Gabriele e Silvio Muccino:

“Apriamo il capitolo Fabri Fibra.
«Finalmente non sono più “il fratello di”. Anzi, pare capiti che gliela buttino là al contrario. È il contrappasso che aspettavo».

È stato un’ombra così lunga e scura, per lei?
«Gigantesca. Badi, io lui non lo odiavo, ho imparato a odiarlo. Non parlarsi per una rottura, in famiglia, è un’anomalia. Figurarsi nella nostra, dove facevamo pure lo stesso pubblico lavoro».

Siete in compagnia dei fratelli Muccino.
«Quando leggo notizie su di loro ci penso sempre: allora non siamo i soli in questa assurdità».

Tra voi com’è andata, una volta per tutte?
«Avevo 16 anni, ero un teppistello, e un giorno in scooter con dei miei amici mi sono ritrovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Il posto era la campagna di provincia, intorno a Senigallia. Il momento era avere una Calibro 22 in mano e non saperla maneggiare. Esplode un colpo. Prende in pieno un mio amico. La pallottola diventa una biglia, il suo corpo un flipper: da sotto l’ascella va al torace, passa in una costola, buca un polmone e il rene, s’infila nella vescica. Quel ragazzo rischia di morire, sta un mese e mezzo in ospedale, si salva. Finisco sotto processo, nessuna conseguenza, era stato un incidente. Mia mamma mi dice: “Stattene un po’ buono, vai in garage con tuo fratello”. All’epoca lui faceva freestyle con un dj. Stare lì a guardare mi annoiava. Allora prendo in mano il microfono, e comincio anche io. Prendiamo treni, suoniamo nei locali. Poi Fabri decide di partire per l’Inghilterra: la musica era un hobby, meglio imparare l’inglese».

E lei?
«Voglio produrre. Così tiro su uno studio, mi faccio insegnare come si fa. Ci chiama la Universal. Siamo in due. Poi qualcosa inizia a non andare».

Che cosa?
«Per loro ero un accessorio, l’eterno secondo. Eppure, se non fosse stato per me, Fabri Fibra starebbe ancora a montare i tappi alle penne in Inghilterra. Sono stato io a creare gli album Ego e Home. Io a inventarmi il suono di Mr. Simpatia. I suoi primi successi. Quando lui torna da Londra per registrare, iniziamo a guardarci diversi, la bolla scoppia, e capiamo che stiamo combattendo una guerra su due fronti: lui su quelle basi musicali sparava a zero con un gusto morboso e una cattiveria gratuita, io ambivo al positivo, al lato buono che c’è, a costruire una carriera sana da professionisti, non sulla pelle dei cadaveri. Un parente che fa la tua stessa cosa con la stessa etichetta, se funziona, è un problema».

Così molla il management comune, ed è licenziato dalla Universal, che oggi la ripubblica.
«E lui da subito è poco rispettoso: cala il silenzio, che insieme all’ostruzionismo è una chiara dichiarazione d’intenti. Prende a collaborare con qualsiasi emergente, il mondo che detestava di colpo diventa friendly. Mi rinnega, mi ripaga a indifferenza, come fossi il suo peggior nemico. Già con Applausi per Fibra (singolo di Fibra, del 2006, ndr) non eravamo più né soci né amici né fratelli. Estranei, che non si devono incontrare. Nelle interviste quando gli chiedono di me butta lì due o tre paroline, che stanno sempre per: “Scrive bene, ma qui siamo in serie A, non tiriamo fuori la C”».

Che cosa pensa della sua condanna a risarcire Valerio Scanu perché in A me di te gli dava della donna?
«Che non puoi nascondere sempre tutto dietro il paravento dell’arte. Un insulto resta un insulto. E può tornarti indietro come un boomerang».

Che cosa vorrebbe dirgli?
«Che è un ingrato. Saremmo potuti essere una bellissima storia italiana».

Da quanto non vi vedete?
«Quasi dieci anni».

Se lo incontrasse?
«Cambierei strada».

Non sarebbe invece l’occasione per ricucire?
«Ne ha avute. L’ultima: decennale di Tradimento (album del 2006, ndr), mi fa scrivere dall’editore di Universal per chiedermi dei pezzi. Ho risposto: “Se vuole gli inediti, che me li chieda lui”. Niente. E allora ognuno per la sua via».

Ne soffre?
«Ormai sono un iceberg».

Che si creperà quando?
«Mio padre ha quasi 90 anni. Ho avuto questa visione: noi, al suo funerale. Succederà lì. Sarà quel giorno a chiudere i conti. Li pagheremo tutti. Capiremo che non è vero che c’è sempre tempo».

Sua madre come vive la situazione?
«Ormai si è abituata e ha rinunciato al sogno di una riconciliazione, di un Natale tutti insieme. Vive anche lei nell’assenza di Fabri».

A figli suoi pensa mai?
«Spesso. Sono loro l’unico modo per restare al mondo. Guarderemmo insieme i cartoni in Tv. Sarebbero un’ottima scusa per non andare per party e pr, che odio. Anche se mi preoccupa l’aspetto pratico della vicenda».

Cioè?
«Non so compiere azioni elementari: fare benzina, prelevare soldi agli sportelli, sigarette dalle macchinette, ambientarmi senza ansia in luoghi affollati. E questo autismo da disadattati non aiuterebbe».

Da quando è così?
«Da quando sul finire degli anni ’80 andavo in skateboard nella mia città vuota. Amavo stare al confine, sull’orlo. Restare su, mentre gli altri perdevano l’equilibrio. Anche nella droga: a 14 anni affittavamo appartamenti in cui ci distendevamo tutti nello stesso letto a raggio, le teste a creare un cerchio. Lo sballo mistico di pasticche e acidi faceva cadere tutti come tessere da domino, ma a me no. Stavo solo vendendo un altro pezzettino di anima al diavolo. Lo scopri tardi, che si prende tutto non in una volta e basta, ma a poco a poco, a tranche, con le scelte più tristi che facciamo e gli diamo in pasto. Che idioti siamo»”.