Berlusconi, Bossi, Bersani, Formigoni, Bonino: il lancio dei “coltelli” sulle elezioni

di Mino Fuccillo
Pubblicato il 5 Marzo 2010 - 13:33| Aggiornato il 21 Ottobre 2010 OLTRE 6 MESI FA

Sta lì, come una figuretta umana nel circo della politica. E’ legata ad una ruota di legno colorato che fa da bersaglio. Al centro del bersaglio c’è lei,  la figuretta, vestita a festa, braccia e gambe divaricate, immobile. Gli “artisti” del circo si esibiscono lanciando coltelli. Coltelli diretti al bersaglio. E’ gran spettacolo, il pubblico un po’ trattiene il fiato, un po’ sgranocchia patatine e ogni tanto fa: ohoo… I coltelli la sfiorano, compongono intorno a lei una corona. Ma basta uno sbaglio, uno solo e il coltello può ferirla, perfino ucciderla. E’ un gioco pericoloso, nessuno metterebbe a fa da “figuretta” un bambino. E invece nel circo della politica sottoposta al lancio dei coltelli è la più delicata creatura che c’è: il patto elettorale. Patto per cui i risultati delle elezioni si accettano e non si discutono, patto fondante della convivenza. Patto senza il quale le elezioni sono “guerra civica”, prima e dopo il voto. Patto che le democrazie occidentali rispettano rigorosamente per primario istinto di conservazione. Negli Usa quando Al Gore e Bush si contesero la presidenza e ci fu forte dubbio sulle modalità del voto e sul conteggio delle schede tutta la comunità nazionale e tutti i partiti accettarono che fosse la Corte Suprema a decidere. Non perché la Corte fosse infallibile o perché fosse il modo più “giusto” di decidere. Ma perché, se non si accetta che una qualche Corte decida, da allora in poi si rompe il patto, tutti sono autorizzati a non riconoscere la validità e il risultato delle elezioni. E allora tutto si sfascia, allora tutta la comunità nazionale fa quel che Salomone solo minacciò: taglia in due il bambino per darne metà ciascuno alle donne che se lo contendono.

In Italia invece si lanciano coltelli sul patto e il patto può essere colpito, sanguinare, perfino alla lunga dissanguato morire. Lancia, vuol lanciare coltelli Silvio Berlusconi. Il suo “coltello” oggi si chiama decreto. Decreto con cui il governo decide di cambiare le regole e la data del voto. Decreto che rompe il patto perché, dopo un decreto così, ognuno potrà pensare e dire che le elezioni sono non valide, decreto che porta, spinge metà o quasi del paese a diffidare, perfino ad “odiare” le elezioni. Purtroppo non è una novità assoluta la cultura che può portare a quel decreto: ogni volta che Berlusconi ha perso le elezioni ha gridato a “brogli” elettorali. Nelle democrazie occidentali non lo fa mai nessuno, si fa in Ucraina. L’Italia si è assuefatta in fretta a che si faccia anche qui. Altro avrebbe dovuto e potuto fare Berlusconi: ammettere l’errore e la sciatteria che ha portato a depositare liste non valide o fuori tempo, ammettere che l’errore, gli errori sono figli di “lavori” dell’ultimo istante sui nomi dei candidati. Ammetterlo in Parlamento e chiedere al Parlamento di ripristinare insieme la legalità e la piena rappresentatività del voto. Ma Berlusconi e il Pdl non lo fanno. Raccontano i giornali che Berlusconi non voglia “pagare il prezzo”: i suoi sondaggi stimano al tre per cento il calo dei consensi a causa di questa “confessione”. Forse più: il Pdl sarebbe già passato dal 40,8 al 37,9 per cento. E allora: “inimicizia dei giudici…manovra contro il governo…decreto”.

Di lanciare questo “coltello” non aveva intenzione Umberto Bossi. Tre giorni fa il suo ministro, il nostro ministro degli Interni Maroni aveva detto: “Niente decreto, non si può, impensabile”. Responsabili il leader e il ministro leghista, ma era una responsabilità a “territorialità limitata”. Fino a che a Roma rischiava la Polverini e la lista Pdl, Bossi, Maroni e la Lega giudicavano il decreto un’arma da taglio offensiva e pericolosa. Poi, dopo che il rischio è diventato lombardo e padano, dopo che la lista e la candidatura Formigoni sono entrate nel ballo, allora Bossi e Maroni impugnano e lanciano il “coltello”. E le cronache registrano senza particolari sussulti un ministro degli Interni che cambia parere, e che parere, a seconda del “collegio elettorale” coinvolto, a seconda se siano o no “fatti suoi”.

Mano al “coltello” ha messo il candidato Roberto Formigoni: la sua proclamata “caccia” alle irregolarità altrui, il suo denunciare “collusione” tra magistrati e avversari politici è acido corrosivo sul patto elettorale, è già lama che taglia la carne viva del rispetto di quel patto. Mano al coltello anche quella di Renata Polverini che canta in piazza: “Come può uno scoglio arginare il mare…”. Dove il “mare” è la sua candidatura e lo “scoglio” sono le regole del patto. Mano al coltello, arditamente, il ministro della Difesa La Russa: “Siamo pronti a tutto…”. Mano ai coltelli e verità nel fodero: quel Riparbelli inserito nel listino a Milano all’ultima ora con affannosa rincorsa alle firme, quel Milioni a Roma ritratto da un video che lavora alla lista e poi dalla sede del Tribunale esce per non far vedere come “lavora”? Niente, il Pdl nasconde, perfino a se stesso.

Di “temperino” se non di coltello, ma pur sempre di lama hanno lavorato anche i radicali. Andando a caccia dell’irregolarità altrui, anche quella formale e non sostanziale. E mano al coltello tiene anche Emma Bonino:, ingolosita dai sondaggi che la danno al 49,2 contro il 48,5 per cento dell’avversaria appesantita dalla mancanza della lista Pdl, non una parola della candidata radicale nel Lazio per annunciare la sua disponibilità a cercare, nell’ambito della legge, che le liste avverse in competizione ci siano tutte. Al Pd di Bersani i radicali hanno fatto sapere e capire che sono pronti a mettersi di traverso qualora l’opposizione faccia in Italia ciò che l’opposizione farebbe in un paese di democrazia occidentale.

L’opposizione: il peso e l’onere del primo gesto sarebbero spettati al capo del governo, andare in Parlamento, ammettere e chiedere. Ammettere l’errore e chiedere la soluzione. Dopo questo gesto in un paese occidentale il capo dell’opposizione si alza, accoglie l’ammissione di responsabilità dell’avversario e si assume la responsabilità di consentire insieme che siano rispettate sia la legalità che la pienezza rappresentativa delle elezioni. Ma chi è il capo dell’opposizione in Italia? Nessuno e chiunque osasse comportarsi come fosse tale sarebbe immediatamente smentito dagli altri partiti, dai tanti “partiti” dentro il suo partito e perfino dalla sua gente. Bersani e il Pd hanno detto che nulla si può fare. Determinato coraggio, coraggio da Ponzio Pilato. Non hanno la forza e l’autorevolezza per “rischiare” una soluzione insieme al centro destra. Non hanno dietro di loro un’opinione pubblica di sinistra educata e disposta alla responsabilità istituzionale che subito chiamerebbero “inciucio”. Forse si cullano nell’idea di una campagna elettorale segnata, sfregiata dal decreto-diktat di Berlusconi. Comunque anche loro giocano con il “coltello” di elezioni che l’altra metà del paese giudicherebbe non veramente valide. La differenza con il centro destra è che questo lancia coltelli contro la “figuretta” della democrazia elettorale, il centro sinistra il coltello non lo lancia, se lo rigira tra le mani con la concreta possibilità di tagliarsi da solo.

Il capo dello Stato, Napolitano, fa quel che può: si rifiuta di far da padrino, annunciatore e impresario della festa del coltello. Ma il “Circo” scalpita e preme. Se le “lame” non brilleranno e voleranno prima, si profila una “soluzione”: il Tar lombardo riammette Formigoni, la Lega si placa mentre nessun Tar o Consiglio di Stato può riammettere la lista Pdl nel Lazio. In Lombardia l’irregolarità della lista del centro destra è tanto palese quanto “inferiore” al diritto di rappresentanza, se la si riammette saranno elezioni in stato di sostanziale parità tra i contendenti. L’irregolarità nel Lazio invece, per dirla con le parole del centro destra, è “sostanziale e non formale”: al termine previsto la lista non c’era. Se la si riammette, per sentenza o per decreto, nel Lazio si concede “vantaggio” al centro destra. Non è la soluzione di tutto e neanche la migliore del mondo, ma è una soluzione. Oppure c’è quella della legge condivisa da tutti che sposta le elezioni e fa in modo che tutte le liste ci arrivino in maniera regolare. Non sono soluzioni il decreto con cui il governo “salva” le sue liste nè l’attesa passiva e furbastra delle opposizioni che “qualcuno faccia qualcosa”. Questi sono coltelli,  usati per l’omicidio d’imperio o il suicidio assistito del patto elettorale e civile.