Referendum in Sudan, il Sud già canta vittoria: “Addio Khartoum”

Pubblicato il 7 Gennaio 2011 - 19:07 OLTRE 6 MESI FA

Mancano meno di 48 ore all’inizio delle votazioni che decideranno il nuovo assetto del Sudan: l’aria è colma di eccitazione e carica di aspettativa. Centinaia di cittadini si sono riversati per le strade: cantano, ballano danze tribali, chiedono lo svolgimento pacifico di un referendum che aspettano da più di 5 anni. Una manifestazione in piena regola sfila per le vie di Giuba, con tanto di furgoni con casse e altoparlanti e banda che suona, avanzando allineata.

Ci sono gli studenti in divisa che sfilano composti con le loro piccole bandiere di carta, bambini vestiti di stracci che si tengono per mano, saltellando in mezzo alla folla esultante. Chi sta lavorando si ferma per veder passare la parata o si affaccia dalle porte dei negozi salutando e battendo le mani. E’ una grande festa per il diritto all’indipendenza, ma non solo: la nascita del nuovo stato del Sud del Sudan viene vista come la tanto desiderata fine di decenni di conflitto, nella speranza che la stabilità porti lo sviluppo economico da cui sono stati tagliati fuori per troppo tempo.

”E’ il momento di far sentire la nostra voce, è il momento di decidere del nostro destino, adesso spetta solo a noi”: gli altoparlanti urlano senza sosta, macchine e furgoni sfrecciano per le strade suonando il clacson. Si sventolano le bandiere di propaganda del referendum: ”Mi sono registrato, devo andare a votare”. Ovunque a Giuba si esulta, ogni singola persona freme per porre con l’inchiostro indelebile l’impronta del proprio pollice nella casella ”separation” Khartoum. Il risultato che segnerà la nascita di un nuovo stato dell’Africa orientale sembra ormai scontato, questo è solo il conto alla rovescia.

Le persone hanno sete di libertà e di pace, chiedono di vedere riconosciuta la loro appartenenza religiosa ed etnica (nel Sud vivono neri cristiani e animisti mentre il Nord è a predominanza araba musulmana). ”Siamo stanchi della guerra, vogliamo vivere in pace ed essere liberi di decidere del nostro futuro”. Simon ha 20 anni e viene da Rumbek, un villaggio a circa 400 chilometri da Giuba. Lavora nella polizia ed è, come tutti, ansioso di andare a votare e poter decidere per la propria libertà.

”La gente qui muore di fame e non ha vestiti, ecco perché vogliamo separarci”, dice, ”quando saremo indipendenti potremmo svilupparci. Ci sarà molto lavoro da fare”. E’ vero, c’e’ molto da fare: arrivare a Giuba via terra significa passare attraverso chilometri di terra desolata, bruciata, piena di alberi secchi. Giuba viene chiamata ”città”, in realtà è un agglomerato di prefabbricati e case semi costruite o semi distrutte.

Le strade sono piene di spazzatura e di carcasse di macchine, le fogne sono a cielo aperto, in giro c’è un gran via vai di container di petrolio. Gli unici edifici stabili sono le chiese, le scuole e un paio di ospedali, tirati su con grande fatica dalle missioni e dagli organismi operanti nell’area. E’ ancora tutto da costruire e tutti sperano che questa secessione porti ad una nuova nascita.