Zucconi: “Il mio 11 settembre, cavallo stanco di un’America sconfitta”

di Antonio Sansonetti
Pubblicato il 9 Settembre 2011 - 15:59| Aggiornato il 10 Settembre 2011 OLTRE 6 MESI FA

Entrò in scena Bush ed entrò in circolo subito la dottrina Bush.
«Sì: “Esportiamo la democrazia”. “Liberiamo…”, ma soprattutto: “Noi non faremo distinzioni fra gli Stati che ospitano le organizzazioni terroristiche e le organizzazioni terroristiche”. Questo fu il fondamento per l’invasione – fin troppo facile, senza una vera operazione militare – dell’Afghanistan e poi per l’invasione dell’Iraq: “Se tu ospiti i terroristi sei un nemico dell’America da colpire”».

In una classe di scuola elementare della Florida George Bush viene informato dello schianto del primo aereo (Ap-Lapresse)

Una parola ricorreva dei discorsi della dirigenza americana e nei titoli dei giornali del giorno dopo: guerra.
«”We are at war”: Bush lo disse subito. Avevamo appena archiviato la scena della scuola elementare della Florida, in cui leggeva il libro “Io e la mia capretta” tenendolo alla rovescia, perché già sapeva del primo attacco. A proposito, chi pensa a un complotto “bushista” dovrebbe andare a rivedersi quella scena: o era un attore da Oscar o più verosimilmente era stato completamente colto di sorpresa.
“We are at war”. Alla guerra, ma contro chi? A questa domanda non è mai stata data una risposta soddisfacente. Suonò un po’ come: “Siamo in guerra con chi ci capita sotto”».

Sembrò quasi mancanza di lucidità. Perché?
«L’America non aveva mai visto una cosa del genere. A differenza dell’Europa o delle altre nazioni, che avevano conosciuto la guerra, il terrorismo, le stragi. L’assassinio di Kennedy? Non è paragonabile. Pearl Harbour? Era lontano 5.000 miglia (dalle coste americane) oltre che lontano 60 anni. Si creò un atteggiamento psicologico completamente inedito per tutti, dal presidente all’ultimo dei camerieri del McDonald’s. E per questo loro hanno perduto la testa: perché non c’erano riferimenti, né storici, né nella vita delle persone. Chi aveva fatto la guerra l’aveva fatta lontano, in posti come Vietnam, Corea. Ma non aveva mai visto niente di simile, e sottolineo la parola “visto”: dimentichiamo sempre che la potenza dell’11 settembre è che è stato filmato, è stato visto. Degli altri attentati abbiamo sempre solo visto le rovine fumanti. Prendiamo Lockerbie (260 morti in un aereo bomba nel 1988, ndr): pensate se avessimo visto il 747 della PanAm in fiamme avvitarsi, precipitare e sbriciolarsi pezzo dopo pezzo. Invece le uniche immagini furono, come al solito: il relitto, le scarpe, la borsa, il seggiolino, l’orsacchiotto del bambino e nient’altro».

Quindi gli americani erano completamente impreparati?
«Sì. Nel 2001 gli Usa si sentivano in cima al mondo: erano usciti da un decennio prosperosissimo, dal boom delle nuove tecnologie, da un nuovo paradigma economico. La Cina era ancora principalmente un mercato di lavoro a basso costo, non era ancora un concorrente. Quindi lo choc fu doppio: perché non era mai stato visto niente del genere e perché colpì dei simboli – i simboli sono facili da capire – del capitalismo americano e della potenza politica e militare americana. Che in quel momento era all’apice».

Degli eventi tragici del nostro tempo nulla sembra “competere” con l’11 settembre, perché?
«Sì, tutto questo clamore per tremila morti, si potrebbe cinicamente dire. Ma nell’immediato ci fu qualcuno che parlò – penso a Oriana Fallaci – di almeno 30.000 vittime. Nessuno sapeva quanti morti ci fossero sotto le macerie delle Torri Gemelle, sotto quello che i i poliziotti chiamavano in un gergo sbrigativo the pile, il mucchio. 1.000, 2.000, 10.000, 30.000 cadaveri? Questo aumentava l’incertezza. Poi c’era la reazione sentimentale (e superficiale) del “siamo tutti americani”. Ma non solo: c’era New York, una città che apparteneva a tutti. Sì certo, quando colpirono Oklahoma City (168 morti nel 1995, ndr) ci fu un massacro terribile: donne, bambini. Però: chissenefrega di Oklahoma City! Chi ci è stato mai? Io ci andai per la prima volta dopo l’attentato e capì perché non ci ero andato mai: non c’è niente, in Oklahoma!
New York invece appartiene a tutti, le Torri Gemelle appartengono a tutti: hanno colpito qualcosa di nostro. La prima reazione è stata: hanno colpito noi, non loro. Confermata poi dal fatto che tra le vittime c’erano persone di 70 nazionalità diverse, 70! Quasi metà delle Nazioni Unite!
Quindi il fatto di averlo visto, il fatto di aver visto cadere qualcosa che apparteneva a noi tutti, ai nostri sogni, ai nostri ricordi, anche al nostro odio – per chi odia l’America – ha reso l’11 settembre immediatamente universale».

Osama bin Laden con Al Zawahiri (Ap-Lapresse)

Un attentato che voleva parlare al mondo, quindi.
«Noi occidentali tendiamo sempre a sottovalutare i nostri avversari, a pensare che siano dei cavernicoli. Stavano nelle caverne, ok. Ma tutti sanno cos’è l’America. E poi molti di loro conoscevano l’Occidente per averci vissuto e studiato. Chi ha organizzato questa cosa l’ha calcolata molto bene, perché la differenza temporale fra il primo e il secondo attacco significava la certezza che il secondo attacco sarebbe stato filmato (guarda le foto qui, qui e qui). Perché ci sono centinaia di cineprese, c’erano i turisti. I telefonini filmavano meno di oggi, ma c’erano le piccole fotocamere digitali che erano in grado di fare riprese; sarebbero arrivate le stazioni televisive locali: infatti in 10-15 minuti erano tutte sul posto. Si sarebbero alzati in volo gli elicotteri, come si usa nelle tv americane per filmare l’incidente stradale o l’inseguimento del criminale. Quindi questa sfasatura temporale, che doveva essere poi accresciuta ancora dall’attacco a Washington che era previsto per mezz’ora dopo, era estremamente sofisticata, intenzionale da parte dei terroristi: non fu casuale. Perché il tutto era creare l’effetto, e ci sono riusciti. Volevano che l’immagine restasse scolpita nella nostra memoria, così come lo è restata. Una grande regia».


Scelte di regia per un film di sicuro successo.
Ma per il tempo in cui viviamo ha avuto più conseguenze l’11 settembre o il 15 settembre (2008, il crac di Lehmann Brothers)?
«Le due cose sono collegate perché la domanda vera che qualcuno sta iniziando a porsi è: ma chi l’ha vinta davvero la guerra iniziata l’11 settembre? Certamente non l’ha vinta l’America. L’America di 10 anni dopo non è una nazione più forte, più rispettata, più potente o più ricca di quanto fosse dieci anni orsono. L’America ebbe due reazioni: quella militare che era ovvia, per chi la conosce. È come avere in mano un gigantesco martello, che le costa 600 miliardi l’anno (guerre escluse) e che non può fare a meno di usare. Il proverbio dice: agli occhi del martello tutto il mondo è fatto di chiodi. Così, chi ha un’enorme forza militare come quella è tentato sempre di usarla.
Ma poi c’è stata un’altra reazione: quella di dimostrare al mondo che noi americani diventeremo  ancora più ricchi, più prosperi, più potenti. Il che ha portato a una politica fiscale scriteriata, i cui effetti vediamo oggi, con riduzioni di tasse fatte malissimo, fatte ideologicamente, per gonfiare la ricchezza nazionale, senza preoccuparsi di come questa si sarebbe distribuita: l’acqua è affluita verso l’alto, contrariamente alle leggi naturali. Devastando il bilancio pubblico, naturalmente. Ci fu un grande laissez faire: “Arricchitevi, non ci pensate, fate vedere che vivete alla grande”. L’appello del sindaco di New York Rudolph Giuliani, 48 ore dopo la tragedia, era: “Uscite, andate a comprare, andate negli shopping center, consumate”».