Cristo “alla” Michelangelo per 3,2 milioni: lo spreco dei nostri soldi

di Antonio Sansonetti
Pubblicato il 21 Febbraio 2012 - 08:00| Aggiornato il 17 Aprile 2020 OLTRE 6 MESI FA

Roberto Cecchi e il Cristo ligneo "michelangiolesco"

ROMA – Un piccolo crocifisso di legno di tiglio di 41,3 per 39,7 centimetri, attribuibile ma mai attribuito a Michelangelo, è stato acquistato dal Ministero dei beni culturali per 3.250.000 euro, ma secondo la Corte dei Conti, che ha consultato anche un esperto della casa d’aste Christie’s, ne valeva 85.000. Per questo crocifisso, negli ultimi tempi tenuto tra l’altro in magazzino, non esposto al pubblico, la Corte ha rinviato a giudizio per danno erariale il fiorentino Roberto Cecchi, attuale sottosegretario al Ministero dei beni culturali, e altre cinque persone.

La Corte dei Conti – nell’istruttoria dell’allora procuratore generale Salvatore Sfrecola, ora presidente di Sezione, poi conclusa dal vice procuratore generale Marco Smiroldo – ricostruisce dettagliatamente l’enorme leggerezza con cui è stata gestita tutta l’operazione dai vertici dei Beni Culturali.

La vicenda ha del paradosso. Tutti professori, persone di alto lignaggio nel mondo della cultura, persone certo per bene, ma che hanno dato prova di un’incredibile sciatteria. Alla corruzione si può forse porre rimedio, ma alle cose fatte come hanno fatto Cecchi, giustamente premiato con la nomina al secondo grado più alto del Ministero, e dagli altri non c’è scampo. Questi hanno trattato milioni pubblici con un disinteresse che di certo non dispiegano per i loro affari, nemmeno quando vanno, se ci vanno, a comprare la verdura al mercato.

I “passaggi di proprietà” del crocifisso. Viene acquistato a New York dall’antiquario Sandro Morelli, fra il 1990 e il 1991. Morelli vende il crocifisso a Giancarlo Gallino, antiquario torinese, fra il 1993 e il 1995. Gallino viene presentato a Morelli dal professor Giancarlo Gentilini, che aveva studiato a lungo la scultura in quegli anni e non l’aveva mai attribuita a Michelangelo. “Non di Michelangelo, solo Michelangiolesco“, è l’ipotesi del professore riferita da Morelli. Cioè non fatto da ma alla maniera di Michelangelo.

Opera “michelangiolesca” che Gallino acquista e mette in cassaforte, ritirandola fuori solo nel 2003. La fa vedere di nuovo al professor Gentilini, che questa volta si sbilancia e la attribuisce a Michelangelo. Al che Gallino cerca di venderla alla Cassa di Risparmio di Firenze. Prezzo proposto: 10 milioni di euro. La banca chiede un parere a una commissione di consulenti di cui fa parte la professoressa Mina Gregori, racconta di aver sconsigliato l’acquisto “nemmeno per la metà del prezzo richiesto” perché “la cifra era troppo alta essendo l’oggetto minuscolo, di materiale non nobile, eseguito con maestria ma certamente in breve tempo”.

La Cassa di Risparmio di Firenze non acquista il crocifisso. Allora Gallino la propone allo Stato, ovvero al Mibac, sigla che sta per Ministero dei beni culturali, e rilancia: 18 milioni di euro.

Forse Gallino è forte del fatto che il bene è stato vincolato dall’allora direttore dei beni culturali e paesaggistici della Regione Toscana, Antonio Paolucci, che con un decreto dell’ottobre 2004 ha dichiarato il crocifisso di interesse storico e artistico particolarmente importante. Nella relazione che accompagnava il decreto vari studiosi ritenevano possibile l’attribuzione a Michelangelo, ma nessuno lo attribuiva con certezza a Michelangelo. Mancano le prove e non si conosce la storia e la provenienza del crocifisso: per questo nello stesso decreto è scritto che serve un approfondimento e “un riscontro critico più ampio volto a confermare la prestigiosa attribuzione michelangiolesca”.

Lo shopping del Mibac. Gallino quindi ha un’opera vincolata, definita di interesse storico e artistico. Ha due note di Antonio Paolucci e di Cristina Acidini, direttrice regionale per i beni culturali della Toscana, che non si sbilanciano sulla paternità dell’opera ma consigliano comunque l’acquisto al Mibac. L’allora direttore generale del Mibac, Bruno De Santis, sottopone la proposta di Gallino a un comitato tecnico-scientifico formato da Carlo Bertelli, Caterina Bon Valsassina, Maria Luisa Costanza Dalai Emiliani e Vittoria Rossi.

Il comitato, preso atto di una stima fatta dal professor Antonino Caleca che valuta il crocifisso massimo 2.000.000 di euro, dà parere favorevole all’acquisto a “condizioni economiche compatibili con la non documentabile attribuzione a Michelangelo”. Passa un anno e tre riunioni del comitato. L’ultimo parere, datato febbraio 2008, è che la trattativa si può continuare a una cifra compresa fra i 3 e i 5 milioni. Cifra che però non si capisce da quali valutazioni venga fuori.

Passano altri 9 mesi e cambia il direttore generale del Mibac. Cambia anche il ministro, che ora è Sandro Bondi. Il nuovo direttore, Roberto Cecchi, riavvia bruscamente la trattativa: il 13 novembre manda a Gallino una proposta, 3.250.000 euro. Passano 24 ore e Gallino accetta. Cristina Acidini nello stesso giorno dà il parere che la cifra è congrua e sei giorni dopo l’acquisto è concluso.

Il crocifisso di legno “michelangiolesco ma non di Michelangelo”  ha il suo “quarto d’ora di notorietà”. Viene mostrato a papa Ratzinger, al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e a quello della Camera Gianfranco Fini; viene esposto a Montecitorio e visto 20 mila visitatori; viene proposto (sempre il crocifisso) da Bondi come ambasciatore della cultura italiana da mandare in Usa in occasione dell’insediamento di Barack Obama. Poi finisce in un deposito. Sparito il crocifisso, resta il mistero di come si sia arrivati ad acquistarlo per quella cifra.

Il mistero del prezzo. Secondo quanto scrive lo storico dell’arte Tomaso Montanari sul sito del Fatto quotidiano, il crocifisso ligneo fu pagato da Morelli 10 mila euro. Visto l’esito finale, sarebbe una moltiplicazione di costo clamorosa che però il Mibac non è in grado di smentire. Una cifra ufficiale non c’è, ne si sa a quale prezzo Morelli abbia venduto il Cristo a Gallino. Eppure il Mibac ha tutto il diritto di sapere a quali cifre era stata acquistata in precedenza l’opera che gli viene proposta e di acquisire tutta la documentazione relativa: lo prevede l’articolo 63 del Codice dei Beni Culturali, che dispone a coloro che esercitano il commercio di “cose antiche” la tenuta di un apposito registro per le opere che superano un certo valore (per le sculture, 46.598 euro).

Come fa notare la Corte dei conti, i vari prezzi proposti per l’acquisto del Cristo sono stati solo “enunciati” ma mai motivati. Il professor Caleca lo ha valutato 2 milioni, il comitato tecnico ha dato l’ok a trattare per 3-5 milioni, Cecchi ha “chiuso” per 3.250.000 mila, ma nessuno ha motivato le proprie stime. Anche perché non combaciano con nulla. Se si trattasse, come molti esperti ritengono, di un Cristo “in serie”, d’epoca ma non d’autore né di prestigio particolare, anche 80 mila euro sarebbero stati troppi. Fosse stato un Sansovino, avrebbe avuto un valore di 500-600 mila euro. Se invece si tratta di un Michelangelo, 3 milioni sono un vero affare.

Il “tariffario” preciso lo ha stilato il professor Donald Hartley Johnston, specialista di Christie’s, famosa casa d’aste londinese. Un’opera rende di più se venduta al privato che al pubblico, vale di più se è sul mercato internazionale che non su quello italiano. Premesso ciò, se il Cristo fosse veramente un Michelangelo varrebbe dai 3.900.000 di un’asta al pubblico sul mercato italiano ai 10 milioni che potrebbe pagare un privato sul mercato italiano. Se il Cristo fosse solo della scuola di Michelangelo, varrebbe dai 63 mila ai 124 mila euro.

Il danno erariale. La Corte dei Conti sposa quest’ultima ipotesi, facendo riferimento ai dubbi dei critici dell’arte, del comitato tecnico del Mibac e addirittura a esperti citati dagli avvocati della difesa: è il caso del professor Francesco Caglioti, menzionato dalla difesa della professoressa Acidini, che “conferma la prossimità a Michelangelo” senza però sbilanciarsi attribuendo la scultura al Buonarroti.
Pertanto la Corte ha ipotizzato un valore di base d’asta di 85.000 euro, che in successivi rilanci si sarebbe potuto moltiplicare 10 volte fino a 850 mila. Sottraendo quest’ultima cifra a quella pagata dallo Stato, la Corte ipotizza un danno erariale di 2.400.000 euro.

Di questi la Procura chiede che Cecchi ne risponda per 600 mila, così come la Acidini; che Carlo Bertelli paghi una multa di 300 mila, così come la Bon Valsassina, la Dalai Emiliani e la Rossi. Appuntamento il 10 maggio in tribunale.