Sallusti, “voglia di punire i giornalisti”: Caterina Malavenda per il Corriere

Pubblicato il 11 Ottobre 2012 - 11:03 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Caterina Malavenda, avvocato esperto di diritto dell’informazione, scrive una lettera al Corriere della Sera, a proposito del caso Sallusti. Dopo lo sgambetto non riuscito al ddl sulla diffamazione a mezzo stampa, sgambetto che avrebbe aumentato il rischio concreto del carcere per Alessandro Sallusti, il voto definitivo al Senato è slittato a martedì. Malavenda intravede nella vicenda una voglia di punire comunque i giornalisti, se non penalmente almeno economicamente, con delle multe esorbitanti che metterebbero a serio rischio la durata di un giornale:

Caro direttore, com’era prevedibile, se pure oscurato dalla discussione, nella stessa Commissione Giustizia del Senato, del Ddl anticorruzione, procede l’esame del disegno di legge Gasparri-Chiti sulla diffamazione che, salvo ripensamenti, dovrebbe essere presto licenziato e trasmesso alla Camera per l’approvazione definitiva. Altrettanto prevedibilmente, l’argomento ha scatenato la corsa all’ultimo emendamento: 109 pagine di modifiche, per un disegno di legge composto da due articoli e che riguarda solo cinque norme. Tutti d’accordo sull’eliminazione della pena detentiva, per le note ragioni. Esaminando, però, i singoli emendamenti risulta evidente l’idea che ciascun firmatario ha della libertà di stampa; e l’assoluta sottovalutazione — o, al contrario, l’auspicio che si verifichino — delle conseguenze che alcuni di essi, ove recepiti, potrebbero avere per gli interessati, sia pure con qualche meritoria eccezione.

I primi firmatari hanno infatti raccolto le istanze della categoria, emendando sé stessi, fissando un tetto massimo di 50.000 euro alla riparazione pecuniaria, pena aggiuntiva per la sola diffamazione e prevedendo l’improcedibilità dell’azione penale ed una riduzione del danno residuo, in caso di pubblicazione della rettifica, senza commenti.

Con gli altri emendamenti si prevede, poi, un aumento esponenziale della sanzione amministrativa per il direttore che non la pubblica, fino a 250.000 euro, con l’ipotesi di ritrasformarla addirittura in sanzione penale, e del danno minimo di cui il recidivo dovrebbe rispondere, 90.000 euro, prevedendo nei suoi confronti anche il divieto di scrivere ancora, per almeno tre mesi e una multa fino a 500.000 euro, se lo facesse, evidentemente all’insaputa del direttore, vista l’assenza di sanzioni a suo carico. Ancora l’interdizione dalla professione fino a due anni, già con la prima condanna per diffamazione aggravata e la radiazione, in caso di recidiva, cui si vorrebbe persino aggiungere, del tutto inutilmente e con un pizzico di involontario umorismo, la sospensione, comminata dall’Ordine; e l’inutile duplicazione della procedura di mediazione esistente, con la previsione di un Giurì per la correttezza dell’informazione che non sostituirebbe, come si ipotizza da anni, ma precederebbe soltanto il giudizio civile e penale, senza evitarlo.

Con oscillazioni, che ricordano l’andamento del migliore spread, per le sanzioni pecuniarie minime e massime, due per tutte: da 5.000 a 100.000 euro, per la riparazione pecuniaria; e da 5.000 a 150.000 euro di multa, per la diffamazione aggravata, con buona pace del codice penale che, di norma, fissa a «soli» 50.000 euro il tetto massimo per questo tipo di sanzione. Certo c’è anche qualche spiraglio: ad esempio, la riduzione della responsabilità del direttore ai soli articoli non firmati, davvero troppo poco per modificare l’impressione iniziale, l’uso di una vicenda particolare, per dare finalmente spazio alla gran voglia di punire i giornalisti, toccando ciò che può apparire, ma non è, meno importante della libertà personale, il loro portafoglio ma, soprattutto, il loro lavoro.