APERTA A DENVER LA CONVENTION DEMOCRATICA: LA SFIDA DI UN NERO E DI UN CATTOLICO

Pubblicato il 25 Agosto 2008 - 23:38 OLTRE 6 MESI FA

La Repubblica pubblica un commento del suo inviato a Denver Vittorio Zucconi sulla Convention del partito democratico Usa.

”Un dramma politico e umano che il mondo non aveva mai visto rappresentare nei duecento e trent’anni di storia americana va in scena da questa sera in una città che neppure esisteva quando nacquero gli Stati Uniti: l’avvento di un uomo nero che non molto tempo fa sarebbe stato considerato una cosa, un utensile, al massimo una bestia da tiro e che da qui, da Denver, muoverà per tentare di diventare presidente.

Non è il solito show di partito made for Tv questa Convention democratica che comincia oggi ai mille e cinquecento metri di Denver: è un evento terrorizzante ed entusiasmante che potrebbe fare dell’America quello che Thomas Jefferson, proprietario lui stesso di schiavi, promise senza mantenere. La terra nella quale: "tutti gli uomini sono creati uguali" e dotati degli stessi diritti.

Con la testa sprofondata nel ping pong della politica quotidiana, si rischia di dimenticare l’enormità di quanto stiamo vivendo nella follia del figlio di un africano con nonna in un villaggio del Kenya e fratellastro in una bidonville di Nairobi, in corsa verso la massima poltrona del club più esclusivo del mondo, la presidenza degli Stati Uniti. Dopo due secoli e appena 43 titolari in appalto esclusivo a protestanti bianchi con sangue europeo, scalfiti appena dai mille giorni dal cattolico Kennedy, questa Convention democratica propone a un partito spaventato dalla propria temerarietà, di lanciare in orbita insieme due figli delle minoranze più disprezzate, il "sangue misto" Barack Obama e il cattolico Joseph Biden. Se non è ancora venuto il tempo delle donne, per gli errori strategici e la imprevidenza della troppo sicura Hillary Clinton, la rottura del monopolio bisecolare del "maschio bianco protestante" significherebbe che la porta del club si è ormai dischiusa per tutti in futuro, anglo e latinos, italiani e asiatici, africani ed ebrei, donne e uomini.

Come tutte le Convention, anche questo "Barak & Biden show" è dunque un racconto, una parabola laica che i partiti americani ogni quattro anni narrano per convincere innanzitutto loro stessi, prima che gli altri, di meritare il governo del Paese. Ma erano molti anni, da quel 1976 che vide Reagan contendere fino all’ultimo voto nella notte di Kansas City la candidatura a Gerald Ford, che la favola non nascondeva tanta tensione e ansia e senso. Qui, giovedì sera, con il suo discorso di apoteosi, Barack terrà in mano le chiavi per schiudere la storia o per sbattere, chissà per quante generazioni ancora, la porta.

Non sono previsti "notizie", colpi di scena e pugnalate di "correnti". I registi dello show aborrono le novità, dunque le notizie, e se i tesissimi pretoriani del Servizio Segreto che circondano e stringono Barak Obama come un mazzo di asparagi, faranno il loro mestiere non ci saranno sperabilmente neppure riedizioni di quanto accadde 40 anni or sono, nel 1968, ad altri due uomini che minacciavano anche loro quel "cambiamento" che spaventa, Robert Kennedy e Martin Luther King. Non possiamo sperare neppure che accada quello che avvenne appunto nel 1948, quando centinaia di colombe ingabbiate troppo a lungo furono finalmente liberate e bombardarono i congressisti, i giornalisti e il presidente Truman con i loro regalini, scatendando risate di sollievo.

La "story line", il filo del racconto qui a Denver è tutto nel peso immane che il candidato si caricherà sulle spalle quando dirà, alle 20 di giovedì, "accetto la nomination del mio partito". Sapranno allora, questi americani del partito Democratico colpiti dal "rimorso del cliente", quello che assale dopo avere compiuto un acquisto impulsivo del quale ci si pente, tornare a innamorarsi di questo ragazzo 47enne che ne dimostra venti? Avranno, i democratici che oggi brontolano, il coraggio di non fare quello che ogni sinistra al mondo riesce sempre magnificamente a fare, commettere harakiri per dispetto?

L’Obamania è molto sbollita. I sondaggi scricchiolano, i repubblicani usano abilmente la strategia che Hillary aveva tracciato, per demolire il mito e suscitare ansie. Per non dire la verità impronunciabile, che il formidabile handicap di Obama è il suo essere così vistosamente diverso, così "alieno", così, parliamoci chiaro, "negro", i suoi avversari danzano e si nascondono dietro l’eufemismo del "non è pronto per fare il presidente", come se esistesse un corso preparatorio e una laurea per questa cattedra. Come se fossero stati davvero "preparati" a guidare l’America Harry Truman, senatore di seconda fila che si trovò tra le dita le chiavi di una bomba della quale era all’oscuro, o John F. Kennedy, pessimo e negligente politicante per meno di un mandato senatoriale, Clinton, catapultato dalla provincia alla Casa Bianca, o lo stranito Bush, affidato dal padre disperato all’ambasciatore saudita perché gli erudisse un poco il figliolo.

La favola avrà per forza un lieto fine. Il raccontò finirà con l’apoteosi di giovedì notte, "I accept the nomination…" e qualche coro di "Yes We Can", sì, possiamo farcela. Cioè, forse. Speriamo. Se tutto va bene, penseranno sottovoce i delegati e le 15 milioni di famiglie americane che avranno la pazienza di sintonizzare i televisori sulle reti, ora che le Olimpiadi sono finte. Noi tratterremo il fiato, nell’aria sottile di Denver, non per mancanza di ossigeno, ma per lo stupore di quella silhouette così diversa, così improbabile sul podio, lanciata in un corsa che potrebbe essere impossibile.

Forse è troppo chiedere che la storia della più grande democrazia del mondo ruoti attorno a un solo discorso e alla figura di uomo con le orecchie a sventola, una moglie e due figlie nerissime di pelle. Ma bastò un discorso di 45 anni or sono, lo stesso giorno di agosto quando parlerà Obama, il 28, per sconvolgere l’America. Raccontava, perché tutto è sempre racconto, di un "sogno", che l’oratore morì prima di vedere avverato”.