Gli applausi a Burtone, assassino di Maricica, uno choc in Romania: italiani brava gente?

di Veronica Nicosia
Pubblicato il 20 Ottobre 2010 - 11:44| Aggiornato il 1 Agosto 2011 OLTRE 6 MESI FA

“Guardie infami, picchiare una rumena che reato è?”. Una frase come questa concentra l’orrore che dobbiamo provare nel guardare ai giovani di oggi, ai ragazzi che saranno il futuro di domani, un futuro in cui i carabinieri che arrestano un assassino sono “infami” e in cui la vita di una donna che muore ha valore solo in funzione della sua origine. La stampa rumena è rimasta scioccata da quanto accaduto alla connazionale Maricica Hahaianu, una rumena ma prima di tutto una donna, che ha perso la vita per un futile litigio nella metro Anagnina di Roma.

I giornali rumeni titolano “Applaudito il criminale” o ancora “Applaudito perché ha ucciso. L’aggressore della romena ammazzata a Roma sostenuto da decine di italiani”. Gli italiani all’estero non hanno buona fama, sono dipinti con lo stereotipo “pizza, mafia e mandolino”, una descrizione che brucia, che indigna perché in Italia non tutti sono mafiosi, non tutti sono cattivi. Allo stesso tempo però l’italiano che si indigna davanti allo stereotipo è lo stesso che non parla di donna uccisa, ma di rumena.

L’estensione dello stereotipo collettivo al singolo è una tendenza pericolosa, ma tristemente comune, e divaga nella nostra quotidianità, dove l’origine conta più di ciò che siamo, ovvero esseri umani. Non è dunque reato uccidere, ma è reato essere stranieri in una terra diversa da quella in cui siamo nati, è reato avere usi e costumi diversi, è reato essere un attaccabrighe, ma non lo è picchiare e uccidere.

In una realtà sociale dove l’assassino è santificato dagli amici c’è da domandarsi come avrebbero reagito quegli amici,  la “banda” di Alessio Burtone, l’aggressore, l’assassino italiano che ha tolto la vita ad una donna, se al contrario fosse stato un uomo rumeno ad aggredire e involontariamente ad uccidere una loro amica italiana. Avrebbero chiesto l’ergastolo, avrebbero parlato di pena di morte, avrebbero aspramente condannato?

Avrebbero invocato forse la libertà dell’aggressore se la donna uccisa fosse stata una “attaccabrighe” italiana, come anche gli italiani sanno essere, e l’omicida un rumeno? Avrebbero giustificando quel gesto violento e vergognoso, nascondendosi dietro ad affermazioni come “per un ragazzo che ha fatto uno sbaglio mandano tanti carabinieri, manco fosse un mafioso”.

Un confronto è facile, basta ricordare l’omicidio di Giovanna Reggiani, uccisa durante una rapina da Nicolae Romulus Mailat: un rumeno che ubriaco e in preda all’ira ha “involontariamente” (gli atti del processo parlano di preterintenzionalità) compiuto un atto vergognoso, ha tolto la vita ad una donna, un’italiana, e giustamente dovrà pagare il suo sbaglio con l’ergastolo.

Ma in una società dove la vita è un valore e l’omicidio, che sia volontario o involontario, è un reato, perché la giustizia deve avere due pesi e due misure in funzione della propria nazionalità. Perché agli occhi di quei ragazzi che applaudivano un assassino e lo difendevano la vita di una donna rumena ha meno importanza della vita di una donna italiana?

Oggi viviamo in una società multietnica che procede verso la globalizzazione, dove la parola chiave per la costruzione di una società civile deve essere integrazione e invece a vincere è un altro sentimento, è la discriminazione cieca e violenta del diverso, di colui che non riconosciamo come uomo, ma come estraneo, lo straniero quasi un alieno e che in quanto tale perde ogni diritto, incluso quello di vivere.