Scaglia per il Gip era “dominus” di Fastweb e non poteva non sapere

Pubblicato il 25 Febbraio 2010 - 00:16 OLTRE 6 MESI FA

Silvio Scaglia non poteva non sapere perché era “il dominus pressoché assoluto” di Fastweb ed è “logico” ritenere che le operazioni commerciali fittizie ‘Phuncards’ e ‘Traffico Telefonico’ “fossero non soltanto da lui conosciute, ma espressamente autorizzate in quanto indispensabili per l’abbellimento dei bilanci e della contabilità della società da lui amministrata”: è la tesi del gip Aldo Morgigni nell’ordinanza di custodia cautelare.

Secondo il gip, inoltre,  Scaglia avrebbe evidenziato “una pervicace e continua attività simulatoria” e una inclinazione a commettere “reati economici di particolare gravità”.

Scaglia ha fatto sapere di essere “tranquillo”: è accusato, nella sua qualità di amministratore delegato e di presidente del cda di Fastweb SpA, nonché di amministratore delegato di E.Biscom spa, di “partecipazione all’associazione per delinquere” individuata dagli inquirenti, “in relazione alle condotte tenute nell’ambito delle operazioni commerciali fittizie ‘phuncard’ e traffico telefonicò” e del reato di “dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” in relazione alle dichiarazioni IVA relative agli anni fiscali 2003, 2005 e 2006.

Secondo il gip, Scaglia era “non soltanto il legale rappresentante” di Fastweb “di fronte a terzi, ma il vero dominus della società quotata dopo la trasformazione e colui al quale venivano quindi riferite le scelte gestionali di maggior rilievo nell’ambito della società”.

Scrive ancora il Gip: “Gli accertamenti eseguiti nel corso delle indagini  consentono ragionevolmente di sostenere che Scaglia era in possesso di tutti gli elementi utili per valutare e dunque evitare il coinvolgimento della società nella frode fiscale perpetrata con le operazioni commerciali ‘Phuncards’ e ‘Traffico Telefonico’”.

Scaglia era, “pertanto, consapevole, del ruolo essenziale assunto dalla Fastweb spa all’interno della filiera delle società coinvolte, nonché dei molteplici ed indebiti benefici percepiti ai danni dello Stato”.

La stessa scelta di riprendere l’operazione ‘Phuncard’ nel settembre 2003, “realizzando un ulteriore fatturato di oltre 100 milioni di euro, è in sostanza a lui ascrivibile  perché soltanto lui avrebbe potuto autorizzare a quel punto la ripresa di una operazione commerciale ‘bocciata’ da comitato di controllo, ma evidentemente indispensabile per il raggiungimento degli obiettivi di bilancio prefissati”. A sostegno di questa tesi, gli inquirenti portano tra l’altro le dichiarazioni di alcuni manager di Fastweb, che smentirebbero Scaglia.

Scaglia, ad esempio, ha affermato che in azienda aveva un ruolo “organizzativo, progettuale”, ma Alberto Trondoli, direttore generale, interrogato il 12 marzo 2007 ha dichiarato che Scaglia, all’epoca dei fatti, era anche il maggior azionista della società e sulle tematiche più importanti lui era comunque sempre informato e “diceva anche la sua”. Insomma, per il giudice era Scaglia che decideva.

Lo confermerebbe anche una intercettazione del funzionario Giuseppe Crudele, che parla dell’operazione ‘Traffico telefonico’, chiusa dopo la pubblicazione di un articolo su indagini in corso: “..é stato proprio lui in persona… ah… capito? A decidere di… bloccare tutto quanto…”.

Del resto, scrive il gip, “mai nessuno dei top manager ha posto in discussione il ruolo di Scaglia come deus ex machina della società”, di cui era “sostanzialmente il proprietario, vantando il controllo diretto del pacchetto di maggioranza. Deve quindi escludersi che operazioni come quelle descritte, che ponevano i conti di Fastweb a rischi anche di cassa così evidenti, potessero essere realizzate senza che egli ne fosse a conoscenza nel dettaglio”.

Ma secondo il giudice vi sarebbe stata anche una “pervicace e continua attività simulatoria dello Scaglia volta ad eludere le conseguenze delle proprie azioni scaricando le responsabilità sui manager da lui dipendenti, denotando una personalità indubbiamente incline alla commissione di reati economici di particolare gravità ed il rischio concreto che ove lasciato libero egli possa inquinare le prove inducendo le persone che una volta erano a lui sottoposte ad inquinare ulteriormente le prove, come già fatto durante le indagini occultando ad esempio per lungo tempo l’audit interna svolta dalla Beverly Farrow”.

Per queste ragioni, tre anni dopo, viene ritenuta “indispensabile” l’adozione nei confronti di Scaglia della misura della custodia cautelare in carcere.

Il Gip, per rincarare la dose, ha anche notato che Scaglia ha “dismesso ‘prudentemente’ il pacchetto di maggioranza in suo possesso a favore di Swisscom con una operazione sospetta per modalità e tempi di realizzazione”.  Secondo il giudice, “Scaglia, infatti, dapprima vendeva un pacchetto consistente di azioni immediatamente dopo la pubblicazione delle notizie sulle indagini ad Unicredi Merchant Bank, e successivamente, malgrado un pubblico annunzio dell’amministratore delegato Stefano Parisi che il pacchetto di maggioranza era nelle mani di Scaglia e che questi non aveva intenzione di liberarsene, annunziava la vendita dell’intero pacchetto di maggioranza all’operatore telefonico svizzero Swisscom”.

Scaglia ha diffuso una nota in cui sostiene di voler “parlare al più presto con i magistrati per poter rispondere dei fatti che mi sono stati attribuiti”, dicendosi “totalmente tranquillo sulla correttezza del mio operato e della società da me amministrata”.

Reazione durissima alle accuse da parte di Stefano Parisi, amministratore delegato di Fastweb, che ha tenuto una conferenza stampa nel pomeriggio di mercoledì “per difendere la reputazione dell’azienda”. Secondo Parisi, Fastweb è “un’azienda sana e trasparente”, vittima di un “violentissimo danno di immagine” dovuto al fatto di essere stata “associata a fatti criminali gravissimi”, la cui responsabilità è da imputare unicamente a due “mele marce”, Bruno Zito e Giuseppe Crudele, “due dipendenti infedeli” che hanno messo la società di tlc in rapporti con “aziende poco chiare e gestite da criminali” e nei cui confronti sono state avviate le procedure di licenziamento.

Per Parisi, “Fastweb non ha mai commesso alcuna azione criminale, non ha fondi neri all’estero, non ha mai fatto frodi fiscali”. L’azienda era convinta che il traffico telefonico ceduto alle ‘cartiere’ fosse “reale e non fittizio”. “Noi facciamo attività commerciale non attività di indagine sui nostri clienti”, ha detto Parisi, e per Fastweb la consapevolezza della falsità del traffico era “difficile da avere”, tanto che anche alla Procura “ci sono voluti tre anni di indagine per capire” che si trattava di una truffa.

Inoltre Fastweb, non appena saputo dell’avvio delle indagini (era il novembre 2006), “ha interrotto” i rapporti con le società terze coinvolte.

Per quanto riguarda poi la frode fiscale, Parisi ha ricordato che Fastweb ha pagato ai suoi fornitori 38,5 milioni di euro a titolo di Iva e che sono stati i fornitori a non versare quel denaro all’erario: “é andato a loro il vantaggio fiscale non a noi”. Tra l’altro in quel periodo i crediti Iva di Fastweb erano già abbondanti (“800 milioni, non avevamo interesse ad aumentarli”).

Parisi ha anche difeso ovviamente se stesso: “Penso di non avere alcuna responsabilità”, escludendo le sue dimissioni “perché in questo momento la cosa da fare è occuparsi dell’azienda”.

“Non penso che ci troviamo in un Paese in cui si possa spegnere un’azienda”, ha replicato a chi gli ha paventato il rischio di un commissariamento in assenza di un suo passo indietro. Parisi è intenzionato a restare alla scadenza del mandato, con l’assemblea del 24 marzo: in quella sede, “vedremo la proprietà cosa farà”.