Fukushima: quei cinquanta eroi alle Termopili delle radiazioni nucleari

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 16 Marzo 2011 - 15:05 OLTRE 6 MESI FA

TOKYO – A volte, nella tragedie, appaiono le migliori qualità dell’essere umano. Solo nei momenti difficili si possono compiere gesti eroici e accade che nei momenti difficili l’eroismo diventi più “naturale” di quanto si immagini. Quei gesti che poi danno origine ai miti ieri e ai film di Hollywood oggi. Solo vedendo come si comporta quando perde forse anche la vita si può capire il valore di un uomo, vincere è facile, sono capaci tutti. E gli “eroi” di oggi sono i tecnici della centrale di Fukushima.

Da venerdì, giorno del terribile terremoto che ha sconvolto il Giappone, si è parlato, scritto e visto in lungo e in largo della tragedia che ha colpito il paese del Sol Levante. Terremoto, tsunami, incubo nucleare e Apocalisse. Oggi tutto sappiamo della scala Richter e delle qualità antisismiche delle costruzioni nipponiche. Conosciamo i segreti di come opera e distrugge uno tsunami. Abbiamo scoperto come è fatto e come funziona un reattore nucleare e ci siamo spesi nell’immaginare cosa potrebbe accadere in Giappone nella “peggiore delle ipotesi”, anche se non è chiaro cosa ci possa essere di peggiore delle probabilmente decine di migliaia di morti che già si contano. Ma, nonostante tutto, poco sappiamo degli uomini che questa tragedia stanno vivendo e combattendo e poco ci siamo fermati a riflettere sulle loro azioni.

Oggi sappiamo tutti indicare sulla carta geografica la posizione di Sendai, di dove si trovava Sendai, e sappiamo che a Fukushima c’è una centrale nucleare con molti reattori, seriamente danneggiata, che rischia di esplodere. Sappiamo che sono stati tutti evacuati nel raggio di 30 km dalla centrale e che anche le navi da guerra americane hanno girato al largo. Sappiamo che persino gli elicotteri militari che dovevano versare acqua sui reattori incandescenti non si sono potuti avvicinare per le troppe radiazioni. Sappiamo che a Fukushima si sta combattendo una battaglia per evitare che la centrale collassi contaminando tutto l’ambiente circostante. Quello che non sappiamo è chi sta combattendo quella battaglia.

Daniele Mastrogiacomo, su Repubblica, scriveva: “Una voce lancia un grido soffocato: “È scoppiata la centrale”. Attimi di panico. Pochi minuti ed ecco un secondo boato, più forte e profondo. La nuvola adesso è un polverone che svetta verso il cielo. Salta la copertura del reattore 3 della centrale di Fukushima 1, la Daiichi. È il mostro che trenta uomini, veri eroi di questa Apocalisse, cercano di domare da tre giorni. (…)Uomini contro macchine. Tre reattori che producono energia a temperature impossibili e squadre di tecnici che pompano acqua di mare per frenare il calore: si combatte per evitare che il combustibile si riscaldi in modo irreversibile e sciolga le camicie di grafite che lo avvolgono. Ma è un’impresa impossibile”. Le ultime agenzie ci raccontano che i tecnici possono restare solo poco tempo dentro la sala controllo della centrale perché, a causa della radiazioni, dopo poco tempo non sono più in grado di lavorare. Questa mattina sono anche stati fatti evacuare dalla centrale stessa perché, dopo l’ennesima esplosione, i livelli di radioattività erano diventati troppo alti. E dopo poche ore sono tornati al lavoro.

Oltre alla trentina di tecnici che cita l’inviato di Repubblica ce ne sono quasi altrettanti a cui la società che gestisce la centrale ha chiesto di rimanere al lavoro e, con loro, gli uomini dell’esercito giapponese che li appoggia. Questi uomini, di cui così poco si è parlato, stanno sacrificando la propria vita, deliberatamente, nel tentativo di salvare quella degli altri. I tecnici al lavoro nel tentativo di riprendere il controllo dei reattori si stanno esponendo a livelli di radiazioni altissime. Per 30 km sono stati tutti evacuati e loro sono a poche decine di metri dai reattori danneggiati. La quantità di radioattività assorbita dai loro corpi li porterà, probabilmente, a non vivere a lungo e, quasi certamente, a sviluppare molteplici forme di tumore e sofferenza. Non li obbliga nessuno, se non la loro morale e il loro essere uomini. E non agiscono così perché sono giapponesi, non c’entra nulla con i kamikaze o con la disciplina ferrea tipica di quel popolo. Di esempi simili ne è piena la storia di tutti i popoli. Da Leonida alla Termopili sino ai marinai del Kursk passando per i pompieri di New York.

Nei momenti drammatici l’essere umano, che sembra provare un perverso gusto nei momenti di pace nel mostrare tutti i sui peggiori difetti e bassi istinti, si trasforma e ricorda, in qualche modo, perché siamo diventati la specie dominante sul pianeta. Quegli uomini che stanno lavorando a Fukushima non lo stanno facendo per loro, per loro il peggio che devono scongiurare è già arrivato, le radiazioni che devono evitare che si propaghino già li hanno investiti. Stanno lavorando per gli altri, per i loro figli, per la società, perché sanno che esiste un bene superiore a quello del singolo: il bene comune. Leggendo la loro storia è facile provare un moto di ammirazione misto a stupore ma, per quanto sembri incredibile, l’uomo è migliore di come si dipinge e molti altri farebbero la stessa scelta che hanno fatto i tecnici di Fukushima.