I morti in Tunisia interessano anche noi

di Gennaro Malgieri
Pubblicato il 12 Gennaio 2011 - 20:29 OLTRE 6 MESI FA

I morti tunisini non ci consentono più di sottovalutare quanto sta accadendo in Africa settentrionale. Se i morti algerini, divampati la scorsa settimana, promettevano di creare qualche problema d’ordine pubblico, ma niente di più, a Abdelaziz Bouteflika, quelli scoppiati, più virulentemente, quando nessuno se lo aspettava, nella vicina Tunisia, indicano che il malessere nel Maghreb si sta diffondendo a macchia d’olio, con conseguenze nefaste per la regione che rischia il contagio.

Ad essere precisi, fin dal 17 dicembre a Tunisi si temeva che alcuni segnali di rivolta potessero tramutarsi in qualcosa di più consistente. L’esercito fece la sua parte ed il presidente Zine El-Abidine Ben Alì potè mostrarsi all’opinione pubblica con il sorriso di sempre. Invece l’inquietudine covava e forse si attendeva che i casseur algerini dessero il via ad una nuova e ben più consistente ondata di proteste. I giovani tunisini, imitando i loro coetanei di Algeri, Costantine, Orano sono scesi negli ultimi giorni in strada devastando negozi, uffici pubblici, scagliandosi contro le forze di polizia spesso soltanto con sassi e qualche arma rudimentale.

Il governo ha accettato la sfida, pur mostrandosi disponibile a qualche concessione facendo scarcerare i primi arrestati dopo pochi giorni di detenzione, e schierando le forze armate a presidio delle città. La paura non ha agito da deterrente: nessuno sa quanti siano stati i morti nella capitale, a Kasserine e a Sfax, oltre che in altri centri minori, dove il sucidio di cinque ragazzi, ormai reputati eroi della “violenza civile”, vine considerato un atto d’accusa che coinvolge tutto il Paese contro il regime autocratico di Ben Alì, al potere dal 1987, quando prese il posto di Burghiba.

L’esercito non sarebbe più con il presidente. Un colpo di Stato, tuttavia, nelle condizioni attuali, aggraverebbe la situazione. Non c’è, infatti, nessuno, se non i militari, capace di fronteggiare i moti. Ma la popolazione non accetterebbe una dittatura che sarebbe necessariamente repressiva. Purtroppo non esiste in Tunisia una vera e propria opposizione politica organizzata al regime, come, del resto, non c’è neppure in Algeria, a meno di non voler considerare tali delle minoranze addomesticate o ininfluenti. Le violente reazioni perlopiù giovanili determinate dal rincaro dei beni di prima necessità, a cominciare dal pane, per quanto possa essere incredibile, sono spontanee.

Si sono diffuse nei due Paesi quasi simultaneamente poiché il deteriorarsi della qualità della vita, soprattutto nei ceti meno abbienti, tanto in Tunisia che in Algeria ha le stesse motivazioni economiche e sociali che impattano sulla complessiva condizione dei giovani che si sentono privati dalla possibilità di avere un destino. Fallito il miraggio che negli anni passati aveva offerto loro il fondamentalismo islamico, costretti a convivere con un assistenzialismo insoddisfacente, indotti, quando possono ad espatriare, pur in possesso di diplomi e di lauree, sono finiti nel gorgo di una comprensibile disperazione che le nomenclature dei rispettivi Paesi hanno sottovalutato per troppo tempo, tenendoli in scacco con la lotta all’islamismo radicale e la difesa delle ragioni della “rivoluzione” che, soprattutto in Algeria, nessuno più sente.