Niente lavoro? C’è chi ne ha due. Sono 186 deputati e senatori

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 24 Maggio 2011 - 14:50 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – «Ai membri del Parlamento è fatto divieto di percepire un reddito extraparlamentare annuale, derivante da lavoro autonomo o dipendente, superiore al 15 per cento del trattamento complessivo massimo annuo lordo riconosciuto ai magistrati con funzione di presidente di sezione della Corte di cassazione ed equiparate». Questo il testo del disegno di legge shock che è stato presentato dall’ex tesoriere del Partito democratico durante la gestione di Walter Veltroni, Mauro Agostini. Fantascienza? Sì, nel nostro paese è una proposta che somiglia alla fantascienza o alla fantapolitica che dir si voglia. Ma non è il parto di una mente dalla fervida immaginazione è, al contrario, una proposta sensata che, tra l’altro, ricalca quanto prevede la legislazione degli Stati Uniti d’America. Una norma che, se attuata, metterebbe fuori legge i redditi di 186 parlamentari. Già, perché nel paese dove due milioni e centomila sono i disoccupati ufficiali, un milione e mezzo gli “scoraggiati” che il lavoro non lo cercano più e un altro mezzo milione di un lavoro è in attesa, 186 di lavoro e di reddto ne hanno due e stanno tutti a Montecitorio o a Palazzo Madama.

Gli Usa, modello di democrazia compiuta che, come non si stanca di ricordare il nostro Presidente del Consiglio sono un «vero esempio per quanti nel mondo s’ identificano nei valori della libertà e della democrazia», pensano che non sia giusto per i parlamentari percepire redditi che superino il 15% del valore degli emolumenti che essi percepiscono per il loro lavoro di deputati o senatori. Modello spesso citato ad esempio, quello americano, da esponenti di tutti gli schieramenti: dal modo di organizzare i partiti (il coordinatore del Pdl Denis Verdini e il governatore della Campania Stefano Caldoro), al conflitto d’ interessi (l’ ex segretario dei Ds Piero Fassino). Dagli assetti istituzionali (il pidiellino Lucio Malan), al federalismo fiscale (l’ ex ministro diessino Vincenzo Visco), fino alla gestione della Fiat (Giuliano Cazzola del Pdl). Ma, su come trattare gli affari privati, il modello americano, evidentemente, perde appeal, impallidisce.

La proposta di legge, presentata in aula il 4 maggio scorso, recita «ai membri del Parlamento è fatto divieto di percepire un reddito extraparlamentare annuale, derivante da lavoro autonomo o dipendente, superiore al 15 per cento del trattamento complessivo massimo annuo lordo riconosciuto ai magistrati con funzione di presidente di sezione della Corte di cassazione ed equiparate». Esattamente la tagliola americana, visto che lo stipendio di deputati e senatori si calcola secondo la legge del 1965, sulla base della retribuzione di quei magistrati. Il che significherebbe non poter cumulare all’indennità più di circa 25 mila euro l’ anno. Stesso limite “americano”, ma comunque meno rigido dell’originale di oltreoceano: la proposta di Agostini infatti, lasciando alle Camere il potere di stabilire le modalità di applicazione della legge, non entra nel merito delle tipologie di attività esterne consentite ai parlamentari, che invece le disposizioni americane limitano rigidamente a cose come lezioni all’università, ricavi da pubblicazioni scientifiche e simili.

Se tale legge e tale limite fossero applicati in Italia, tutti i parlamentari con redditi dichiarati oltre i 200 mila euro l’anno, cifra più o meno pari alla somma dello stipendio di magistrato più il 15%, sarebbero fuori legge. Nel 2009 sarebbero stati in 186, 103 alla Camera e 83 al Senato, il 19,7% del totale. Oltre i limiti, inutile dirlo, il premier Silvio Berlusconi (40,9 milioni, appena sopra il limite), il re delle cliniche Antonio Angelucci (6,2 milioni) e uno stuolo di avvocati: da Giuseppe Consolo del Fli (2,3 milioni) a Gaetano Pecorella del Pdl (562 mila euro). Mentre al Senato avrebbero superato decisamente il tetto, fra gli altri, Umberto Veronesi del Pd (1,4 milioni) e due fedelissimi di Berlusconi come Salvatore Sciascia (più di un milione) e Alfredo Messina (1,3 milioni). Una ipotetica barriera, quella dei 200 mila euro lordi, infranta di slancio pure da alcuni noti recordman delle assenze, qual è il cardiochirurgo pugliese Antonio Gaglione (492 mila euro), eletto nel 2008 deputato del Partito democratico e poi passato nel gruppo misto. «Stare in Parlamento è un lavoro frustrante, una perdita di tempo e una violenza contro la persona», ha dichiarato a Monica Guerzoni del Corriere il 3 maggio del 2009, dopo essere finito nell’occhio del ciclone perché assente al voto sul contestato scudo fiscale. Gaglione che, considerato nel suo campo un autentico luminare, alle votazioni della Camera ha totalizzato il 99,4% di assenze. Roba da mettere in crisi perfino i risultati di una ricerca fatta da alcuni economisti fra cui Antonio Merlo dell’Università della Pennsylvania, intitolata The labor market of italian politicians secondo cui, ricorda Agostini nella relazione alla sua proposta, il tasso di partecipazione dei parlamentari si riduce mediamente dell’1% per ogni 10 mila euro di reddito extra. Gaglione è, evidentemente, l’eccezione che conferma la regola.

La proposta è, conoscendo i nostri parlamentari che lasciano languire nel dimenticatoio la proposta con cui Pino Pisicchio di Alleanza per l’Italia aveva chiesto due anni fa di introdurre incompatibilità ferree fra l’attività parlamentare e gli altri incarichi istituzionali e privati, come pure quei sei disegni di legge costituzionali per ridurre il numero dei parlamentari, sembra più che altro una provocazione. A loro il compito di smentirci.