Licenziamenti: a luglio finisce blocco dopo solo 15 mesi. Sfuma sogno posto fisso a vita e per legge

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 25 Maggio 2021 - 09:32 OLTRE 6 MESI FA
Licenziamenti: a luglio finisce blocco dopo solo 15 mesi. Sfuma sogno posto fisso a vita e per legge

Licenziamenti: a luglio finisce blocco dopo solo 15 mesi. Sfuma sogno posto fisso a vita e per legge (Foto d’archivio Ansa)

Licenziamenti, il blocco finisce a luglio. A luglio come da impegno pregresso preso dal governo Draghi e non a fine agosto come da dichiarata intenzione del ministro del lavoro Orlando. Due mesi di differenza, una differenza di sostanza e di forma. La forma: le aziende avevano programmato sulla base della data indicata dal governo e cioè blocco dei licenziamenti fino a tutto giugno, ci sarebbe stato da rifare un po’ di conti ma soprattutto Confindustria lamentava il cambio di carte in tavola da parte di Orlando.

La sostanza: sindacati, Cgil di Landini in testa, e sinistra politica (maggioranza Pd e Leu) erano per una strategia di proroga dopo proroga più o meno senza scadenza reale del blocco per legge dei licenziamenti.

Le ragioni del blocco dei licenziamenti

Evidenti, gigantesche: aggiungere centinaia di migliaia di licenziati ai milioni di lavoratori precari e imprenditori e partite Iva dei servizi, del turismo, della ristorazione, del commercio non era socialmente tollerabile. Quindi un divieto a licenziare (pagato alle aziende con i soldi della collettività) che, pur non avendo altrettanto riscontro in altri paesi d’Europa, in Italia era necessario, anzi indispensabile.

Blocco dei licenziamenti: se 15 mesi vi sembran pochi

Si è cominciato che era appena primavera 2020, il blocco per legge dei licenziamenti va a finire (e solo per le grandi aziende) in piena estate 2021. Un lasso di tempo calibrato sul calendario della pandemia e sui ritmi della ripresa delle attività economiche. Blocco dei licenziamenti doverosa misura di emergenza, ma ai sindacati e alla sinistra è sembrato potesse essere altro, nel blocco dei licenziamenti per legge sindacati e sinistra si sono, per così dire, trovati bene. E a sindacati e sinistra 15 mesi sono sembrati, anzi sembrano pochi.

Un po’ per ideologia, molto per  inadeguatezza di governo

Il blocco per legge dei licenziamenti configura il realizzarsi in terra quello che per i Landini (e gli Orlando) è un sogno. Il sogno del posto di lavoro fisso, fisso a vita e fisso per legge. La pietra filosofale delle politiche del lavoro, l’arca dell’alleanza di ogni sindacalismo, la cura miracolosa di ogni capitalismo, il socialismo in carta bollata, l’economia impertinente domata. E questa è l’ideologia. In realtà modesta, tanto modesta ed esile da non meritare davvero la qualifica di ideologia. Diciamo invece un minestrone, una minestrina di mezze idee dove c’è un po’ di pansidacalismo, un po’ di semplicioneria, un po’ di ingenuità, un pizzico di arroganza e molti surrogati di cultura. Poi l’inadeguatezza di governo, che però non va messa in carico solo a Cgil e Pd e Leu.

Licenziare in Italia è tragedia molto più che altrove

Licenziare, in Italia sempre si traduce e viene tradotto in tragedia, anzi “macelleria” sociale. Altrove molto meno o per niente. Perché? Perché altrove è molto più probabile che in Italia che il licenziato trovi altro lavoro ed occupazione. Altrove esistono meccanismi, istituzioni, uffici, agenzie che realmente lavorano a trovar lavoro a chi ne ha perso uno o lo cambia il lavoro. Si chiamano politiche attive per il lavoro, altrove trovano lavoro a milioni, da noi per ora hanno trovato lavoro per i navigator e per i pubblici dipendenti (delle Regioni) già prima assegnati alla bisogna.

Da noi in Italia di fatto una politica attiva del lavoro non c’è: non si fa formazione professionale verso nuovi e diversi lavori (i corsi di formazione esistenti sono in gran parte canali di redistribuzione di risorse pubbliche ai formatori), non c’è collegamento reale con le imprese e il mercato del lavoro. Se il lavoro lo perdi, in Italia è davvero molto più tragedia che altrove. Di qui una cultura diffusa: partiti, sindacati, istituzioni tendono a difendere il posto di lavoro e non il lavoratore.

Se l’azienda è fallita, se l’azienda produce fuori mercato…fa nulla. La si tiene in piedi con sovvenzioni (e manifestazioni). I soldi pubblici per tenere in vita artificiale un’azienda sono considerati spesa doverosa e sociale, invece i soldi per sostenere un lavoratore nella ricerca di un nuovo lavoro sono considerati quasi quasi una trovata del turbo capitalismo.

Blocco dei licenziamenti: la posizione dei partiti

M5S al governo ha dato corpo più di ogni altro all’incapacità di comprendere e governare cosa sia lavoro e impresa: il reddito di cittadinanza che doveva trovare lavoro a chi non lo ha è il diavolo che si bagna nell’acqua santa. Ma Leu e Pd sono al rimorchio o incatenati ad un sindacalismo che slitta e spesso degrada in corporativismo conservatore in economia, financo reazionario.

E la destra, sia quella della Meloni che quella di Salvini, vanno a raccontare in giro che le imprese cattive sono quelle grandi e straniere e comunque sempre e comunque fieramente si schierano come militi dell’immobilità reciproca di categorie e interessi. Non per caso ma per scelta siamo il paese che da un quarto di secolo, ben prima del Covid, ha la minor produttività in Europa.