Diffamazione. Commenti: Valentini (Repubblica), Nicoli (Fatto), Livi (It.Oggi)

a cura di Sergio Carli
Pubblicato il 29 Ottobre 2013 - 05:08 OLTRE 6 MESI FA
Diffamazione. Commenti: Valentini (Repubblica), Nicoli (Fatto), Livi (It.Oggi)

Diffamazione a mezzo stampa. La legge è all’esame dl Senato

Il disegno di legge sulla diffamazione a mezzo stampa approvato dalla Camera e ora all’esame del Senato è stato criticato da molti. Riportiamo alcuni articoli di commento.

Repubblica: Bavaglio alla legge sulla stampa,  di Giovanni Valentini

Mandare in carcere i giornalisti per diffamazione equivale a negare la libertà d’informazione, cioè il diritto dei cittadini di essere informati. Non lo diciamo certamente per rivendicare una malintesa libertà di diffamare, bensì per tutelare quella d’informarsi. E infatti, di solito sono i regimi antidemocratici, autoritari, gli Stati di polizia, a privare i giornalisti della libertà personale.

È senz’altro confortante, perciò, che la Camera abbia abolito in prima istanza la carcerazione dei giornalisti, per sanzionare diversamente il reato di diffamazione a mezzo stampa che tale è e tale rimane. Ma l’aggravamento delle pene pecuniarie appare una forma di “monetizzazione” chiaramente intimidatoria, quasi una censura preventiva o un bavaglio virtuale, nei confronti della libera informazione. C’è da auspicare, quindi, che il Senato modifichi in seconda lettura la legge, per renderla nello stesso tempo più equa ed efficace.

Qual è in realtà il bene o l’interesse leso dalla diffamazione? Innanzitutto la reputazione e l’onorabilità delle persone direttamente colpite. E poi, anche un più generico «diritto alla verità » che spetta a tutti i cittadini.

Non ha senso, allora, prevedere multe vessatorie a carico dei giornalisti, se non quello di intimidirli, censurarli o imbavagliarli preventivamente. E quindi di impedire a loro d’informare e ai cittadini di essere informati. Il rischio più grave, anzi, è proprio quello dell’autocensura, per cui il giornalista – nella concitazione quotidiana del suo lavoro – sarà portato a non pubblicare una notizia scottante, magari su storie di corruzione o di criminalità organizzata, per non rischiare una multa che potrebbe costargli lo stipendio di parecchi mesi di lavoro.

La reputazione e l’onorabilità delle persone diffamate si ripara, piuttosto, con una smentita adeguata ed effettiva che contemporaneamente risarcisce il danneggiato e ripristina la verità anche a beneficio dei terzi: è già questa una sanzione professionale. Semmai sarebbe più ragionevole procedere a una condanna in denaro solo in caso di rifiuto della pubblicazione da parte del giornale o del giornalista autore della diffamazione.

Lo stesso Diritto civile, del resto, consente di scegliere fra il risarcimento “in forma pecuniaria” o “in forma specifica” se questo è più conveniente per il colpevole: è – per esempio – il caso di scuola del vetraio che preferisce sostituire il vetro rotto con un sasso o una pallonata dal figlio minorenne, di cui è responsabile in forza della patria potestà, anziché pagare il danneggiato.

Quanto sia parziale e insoddisfacente questa pseudo- riforma lo conferma anche il fatto che l’estensione del segreto professionale al giornalista pubblicista «sia accompagnato — come rileva criticamente il segretario della Federazione della Stampa, Franco Siddi – dalla conferma di rivelare la fonte qualora ritenuta determinante per dirimere una causa di diffamazione».

A cui s’aggiunge la bocciatura dell’emendamento sulle cosiddette liti temerarie, quelle intentate in sede civile senza un motivo o un fondamento valido, per minacciare di fatto i giornalisti con la richiesta di risarcimenti esorbitanti. C’è evidentemente in tutto ciò un atteggiamento punitivo della classe politica che va ben oltre la giusta esigenza di tutelare la reputazione e l’onorabilità delle persone diffamate.

E qui bisognerebbe riaprire anche il capitolo sulle azioni promosse contro i giornalisti dai magistrati che godono di un trattamento privilegiato da parte dei loro colleghi, sia sul piano della rapidità dei processi sia sul piano dell’entità degli indennizzi.

Da ultimo, appare tanto ambigua quanto inefficace la norma che contempla l’interdizione professionale per i casi di recidiva. Al tempo di Internet e dei social network, del citizen-journalism o del giornalismo spontaneo, risulta quantomeno retrograda, anacronistica, inapplicabile. Sarebbe, in definitiva, un’interdizione dalla libertà di pensare e di manifestare la propria opinione.

Il Fatto: Diffamazione, alla Camera passa il bavaglio preventivo, di Sara Nicoli.

Una toppa peggiore del buco. Montecitorio vara la nuova legge che riforma il reato di diffamazione a mezzo stampa (ora passa al Senato, dove si prevedono tempi lunghi) e cancella il carcere per i giornalisti e i direttori delle testate.

Peccato, però, che a fronte di questa concessione alla stampa, le forze politiche abbiano aumentato in modo robusto le multe introducendo anche l’obbligo della rettifica senza commento a favore dell’offeso.

In più, la maggioranza ha pensato bene di eliminare qualsiasi ammenda verso chi intenta querela nei confronti dei giornalisti a scopo squisitamente intimidatorio (resta solo una multa di 10 mila euro nei casi più eclatanti), ovvero le cosiddette “querele temerarie”.

Niente carcere, insomma, ma un guinzaglio alla stampa assai più corto attraverso altri modi, tutti economici, per stringere il bavaglio ai giornalisti.

La legge è passata con 308 voti a favore, 117 contrari (Sel e M5S) e 8 astenuti.

Nel testo però ci sono pasticci vistosi. Nella diffamazione a mezzo stampa, per esempio, è stata tolta l’aggravante del fatto determinato e questo, fatti i debiti conti, rende la diffamazione fatta da un giornalista meno onerosa di quella che può colpire un diffamatore da salotto, la cui multa è stata elevata fino a 10 mila euro nel caso in cui il reato venga commesso tra privati.

Contraddizioni che, probabilmente, verranno riviste nel passaggio a Palazzo Madama ma che suscitano perplessità sull’intero impianto della legge.

Ma andiamo alle multe. Per la diffamazione semplice, si diceva, si va dai 5 ai 10 mila euro. Se, invece, si è consapevolmente attribuito a qualcuno un fatto falso, allora la multa sale da 20 mila a 60 mila euro (sinora il tetto massimo era di 50 mila euro), con tanto di obbligo di riportare per esteso della sentenza, fatto a cui nessun giornale cartaceo potrà ottemperare visto che spesso le decisioni superano le cento pagine.

Probabilmente al Senato ci si accorderà per la sola pubblicazione del dispositivo della sentenza, ma resta pesante l’entità della tetto massimo per le multe, soprattutto per i free lance non tutelati dall’ombrello di un editore.

In caso di recidiva, è prevista anche l’interdizione dalla professione da sei mesi ad un anno, ma la pubblicazione della rettifica è giudicata come causa di non punibilità.

Le rettifiche, tuttavia, dovranno essere pubblicate senza commento e risposta, menzionando espressamente il titolo, la data e l’autore dell’articolo diffamatorio. In caso di violazione dell’obbligo scatterà un’ulteriore sanzione amministrativa da 8 mila a 16 mila euro.

Insomma, la libertà di movimento del giornalista, anche senza carcere, resta sempre molto ridotta.

Tanto più  che stavolta il delitto di diffamazione è stato esteso anche ai siti Internet, con unica esclusione dei blog, che restano nella responsabilità dell’autore del post.

Ma c’è di più. In caso di diffamazione, il danno sarà quantificato sulla base della diffusione della testata, della gravità dell’offesa e dell’effetto riparatorio della rettifica. L’azione civile dovrà essere esercitata entro due anni dalla pubblicazione. Una sorta di “fine pena mai” per il giornalista che potrà trovarsi a rispondere di una querela, a livello civile, anche molto tempo dopo la pubblicazione dell’articolo. Cambia, invece, la musica per i direttori delle testate, prima sempre responsabili di omesso controllo. Non risponderanno più a titolo di colpa e potranno delegare le funzioni di vigilanza (in forma scritta) a un altro giornalista che dovrà prendersi anche la responsabilità dell’omissione di controllo di un testo al posto del direttore.

In ultimo, il segreto professionale, che viene esteso anche ai pubblicisti anche se resta l’obbligo di dichiarare la fonte nel caso in cui questa sia fondamentale per ac ccertare la prova di un reato.

 

Italia oggi: Diffamazione, stop al carcere. Multe fino a 60 mila euro e rettifica senza commenti, di Marco Livi.

Mai più carcere per i giornalisti in caso di diffamazione, ma solo pene pecuniarie. In compenso, obbligo di rettifica senza commento a favore dell’offeso. Ieri la camera ha approvato il ddl sulla diffamazione con 308 voti a favore, 117 contrari e 8 astenuti. Contro hanno votato Sel e Movimento 5 Stelle.

Il testo ora passa all’esame del senato.

La novità più importante è l’abolizione del carcere, mentre la multa, in caso di attribuzione di un fatto determinato, va dai 5 mila ai 10 mila euro. Se il fatto attribuito è consapevolmente falso, la multa sale da 20 mila a 60 mila euro. Alla condanna è associata la pena della pubblicazione della sentenza. In caso di recidiva, vi sarà anche l’interdizione da uno a sei mesi dalla professione. La rettifica, comunque, sarà valutata dal giudice come causa di non punibilità.

In ogni caso, secondo il testo le rettifiche delle persone offese devono essere pubblicate senza commento e risposta menzionando espressamente il titolo, la data e l’autore dell articolo diffamatorio. Il direttore dovrà informare della richiesta l’autore del servizio. In caso di violazione dell’obbligo scatta una sanzione amministrativa da 8 mila a 16 mila euro.

Nella legge sulla stampa rientrano ora anche le testate giornalistiche online e radiofoniche. Soprattutto per le testate online si presentava infatti il problema della mancanza di una norma sulla diffamazione, spesso risolto dai giudici applicando comunque le stesse norme dei giornali cartacei.

Nella diffamazione a mezzo stampa il danno sarà quantificato sulla base della diffusione della testata, della gravità dell’offesa e dell’effetto riparatorio della rettifica. L’azione civile dovrà essere esercitata entro due anni dalla pubblicazione.

Fuori dei casi di concorso con l’autore del servizio, il direttore o il suo vice rispondono non più «a titolo di colpa» ma solo se vi è un nesso di causalità tra omesso controllo e diffamazione, la pena è in ogni caso ridotta di un terzo. È comunque esclusa per il direttore al quale sia addebitabile l’omessa vigilanza l’interdizione dalla professione di giornalista. Le funzioni di vigilanza possono essere delegate, ma in forma scritta, a un giornalista professionista idoneo a svolgere tali funzioni.

Anche per l’ingiuria e la diffamazione tra privati viene eliminato il carcere ma aumenta la multa (fino a 5 mila euro per l’ingiuria e 10 mila per la diffamazione) che si applica anche alle offese arrecate in via telematica. La pena pecuniaria è aggravata se vi è attribuzione di un fatto determinato. Risulta abrogata l’ipotesi aggravata dell’offesa a un corpo politico, amministrativo o giudiziario.

L’approvazione della nuova disciplina della diffamazione a mezzo stampa è «un primo passo, importante ma non conclusivo», secondo Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti. Iacopino critica quanto previsto per le querele temerarie, presentate per intimidire i giornalisti, che «non può considerarsi risolto prevedendo un’ammenda che va da 1.000 a 10 mila euro».

Così come l’obbligo della rettifica da pubblicare senza commento perché sembra sparita la possibilità di replicare nel caso la stessa contenga elementi falsi, come era previsto nel testo della commissione. «Così come è sbagliato», ha aggiunto il presidente dell’Ordine, «aver modificato in uno dei passaggi l’esimente per il giornalista che chiede al direttore di pubblicare una rettifica su un suo errore, trasferendone la responsabilità al vertice del giornale, e che ora è chiamato ad avviare un’azione davanti al magistrato per ottenere il ristabilimento della verità. Un meccanismo che espone a grandi rischi soprattutto i giornalisti più deboli, quelli che vengono retribuiti con poche euro ad articolo».