Berlusconi, il dormiente. Sveglia alle corporazioni? “Poi non mi votano”

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 20 Ottobre 2011 - 14:54 OLTRE 6 MESI FA

Silvio Berlusconi si addormenta durante la cerimonia dei Cavalieri del Lavoro (Lapresse)

ROMA – E’ successo di nuovo. Sarà l’età che avanza, saranno le serate eleganti o forse da un po’ diventate noiose, sarà la noia tipica degli appuntamenti istituzionali, il Cavaliere non ce la fa e “gli cala la palpebra”. Non è la prima volta, e forse non sarà l’ultima: Berlusconi viene sopraffatto dal sonno mentre dovrebbe ascoltare quello che intorno a lui viene detto e fatto. Ma le braccia di Morfeo sono troppo comode e così, durante la cerimonia per la consegna delle onorificenze ai Cavalieri del lavoro, alla presenza del presidente Napolitano, il presidente del consiglio è stato nuovamente vittima dello “abbiocco”, “pennichella” o “riposino” pubblico.

Prontamente sbeffeggiato dalla rete, che ha rilanciato foto e video, prove incontrovertibili della sonnolenza indomabile del premier. Al risveglio però Berlusconi si è lasciato sfuggire una mezza verità, nascosta tra le consuete frasi-lamento: “Il presidente del Consiglio non ha poteri, tutt’al più suggerisce”. La mezza verità, e qualcosa di più, è stata questa: “E come faccio a liberalizzare, poi non mi votano più i notai, gli avvocati, i geometri…”. Che il premier non abbia poteri è, di fatto, una vecchia favola cavalcata da Berlusconi. Ma che le corporazioni che compongono l’Italia siano un ostacolo alle liberalizzazioni è un fatto vero.

Già, perché nel nostro Paese non esiste solo la corporazione dei politici, identificata col termine “casta” ormai da qualche anno. Certo la casta è la più invisa e la più esposta delle corporazioni, ma è in ottima compagnia. A Bologna, per i dirigenti regionali un anno d’abbonamento al bus costa 50 euro invece di 300. I loro colleghi di Palermo hanno diritto alla colonia estiva per i figli, quelli di Trieste ottengono mutui a tasso zero è vero, ma ci sono anche i bancari che lasciano il posto in eredità alla prole (ultimo, o forse penultimo caso della serie: l’accordo fra Unicredit e i sindacati dell’ottobre 2010).

Se poi è la Banca d’Italia a pagare lo stipendio, lavorando almeno 241 giorni l’anno si ha diritto ad un premio Stakanov. Ai diplomatici toccano vari privilegi tributari. Gli insegnanti di religione godono d’un trattamento retributivo di favore rispetto a chi insegna matematica o latino. I giornalisti entrano nei musei senza pagare, come i dipendenti del ministero. I ferrovieri hanno il treno gratis: per loro, per il coniuge, per i figli fino a 25 anni. Chi è impiegato all’Enel ha uno sconto sulla bolletta della luce. I sindacalisti, grazie a due leggi del 1974 e del 1996, sono esentati dai contributi pensionistici. I tassisti si proteggono con il numero chiuso, al pari dei farmacisti, dei dentisti, dei notai (che oltretutto sono 4.723, quando la loro pianta organica ne prevedrebbe 6.152). Chi più ne ha più ne metta.

Come scrive Michele Ainis sul Corriere, questa è l’Italia delle corporazioni, e ogni corporazione, ovviamente, difende a spada tratta i propri privilegi. Un insieme così ricco e variegato che nessun governo, di destra o di sinistra, è mai riuscito a mettere in discussione. E qui, questa volta, Berlusconi ha ragione: questo blocco sociale impedisce, non e non solo al premier ma al Paese tutto, di liberalizzare i mercati, di premiare il merito. Insomma di andare avanti libero dalla pesantissima zavorra che i privilegi delle corporazioni rappresentano.

Tentare di scalfire questo blocco è un’impresa al limite dell’impossibile, come dimostra, ultimo esempio, l’esperienza della manovra d’agosto quando gli avvocati (che nel Parlamento attuale sono 134) riuscirono a dimezzare il taglio dell’indennità parlamentare per i professionisti. O ancora quando i tassisti ottennero d’essere esentati rispetto alla pur timida liberalizzazione dell’accesso a talune attività economiche. E ancora quando i farmacisti imposero l’aumento della distanza obbligatoria tra una farmacia e l’altra. Come dimenticare poi la Corporazione con la “C” maiuscola: la Chiesa cattolica, che respinse con successo gli emendamenti sull’Ici per le sue attività commerciali.

Per sbloccare il Paese servirebbe una riforma, ma il potere delle corporazioni blocca ogni riforma, con conseguenti danni per i cittadini. Se le categorie fanno cartello, è chiaro che paghi i loro servizi più salati. Se per esempio i petrolieri dettano un vincolo di fornitura in esclusiva sui carburanti, non c’è affatto da sorprendersi quando in Italia la benzina costa il 4% in più della media europea.

L’Italia dovrebbe cercare di andare avanti, di scrollarsi di dosso questa zavorra storica, lascito infelice questo si, a differenza del frequentemente evocato debito contratto dai governi “altri”, quali che essi siano, del passato. Di un passato lontano risalente al ventennio quando la Camera venne ribattezzata Camera dei fasci e delle corporazioni nel 1939. Come gli ordini professionali che rappresentano un lascito culturale del fascismo: la legge fondamentale risale al 1938, l’anno delle leggi razziali.

Anche se tra un sonnellino e l’altro, in questo caso, Berlusconi ha detto la verità.