Fuori i condannati dal Parlamento: ma contatore dolce di onorevoli reati e pene

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 5 Novembre 2012 - 14:21 OLTRE 6 MESI FA
Anna Maria Cancellieri (LaPresse)

ROMA – Sarebbe comunque un passo in avanti rispetto ad un Parlamento che ospita 146 (su 935 deputati e senatori) tra condannati ed indagati a vario titolo, ma un passo piccolo. Stiamo parlando delle regole sull’incandidabilità alla studio del governo. Regole che l’esecutivo vorrebbe già in vigore per le prossime regionali di Lazio e Lombardia ma regole che, almeno nella bozza non ancora definitiva che circola, appaiono ancora morbide e, in alcuni casi, persino miopi.

L’ipotesi sul tavolo del ministro Annamaria Cancellieri prevederebbe una incandidabilità temporanea per i condannati in via definitiva, cioè dopo il terzo grado di giudizio, limitata ad una serie di reati ben precisa. Il tempo per cui non si sarebbe candidabili sarebbe pari al doppio della pena a cui si è condannati, cioè chi è condannato ad una pena di due anni non sarebbe candidabile per quattro, chi a tre per sei e così via. I reati che porterebbero all’ incandidabilità sarebbero poi quelli previsti dall’art. 51 comma 3 bis c.p.p, quelli previsti dall’art. 51 comma 3 quater c.p.p., quelli previsti dal libro II, titolo II capo I c.p. Tradotto, tre distinte categorie di illeciti penali: i reati gravissimi di tipo associativo, come le associazioni a delinquere finalizzate a commettere reati attinenti alla schiavitù delle persone, alla contraffazione di marchi o brevetti, al traffico di stupefacenti e al contrabbando, o le associazioni di tipo mafioso, nonché di reati altrettanto gravi come il sequestro di persona a scopo di estorsione e la riduzione o il mantenimento in schiavitù o in servitù e la tratta di persone; i reati di terrorismo; e tutti i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.

Bene, anzi benissimo se consideriamo che nel nostro Parlamento siedono oggi quasi 150 persone condannate o indagate. Per la precisione 21 condannati definitivi e 125 indagati o condannati in primo e secondo grado. Come detto certo un passo in avanti. Come meritevole è la volontà del Governo di rendere valide queste regole al più presto, di certo per le prossime politiche ma già per le regionali di Lazio e Lombardia, giunte cadute proprio sotto il peso delle inchieste a carico degli eletti. Apprezzerà anche il presidente Napolitano che alla politica ha chiesto uno scatto d’orgoglio per venir fuori dalla palude di scandali in cui si dibatte ma, per quanto sia ancora una bozza, suscettibile quindi di molti cambiamenti e miglioramenti, almeno due aspetti di queste regole lasciano perplessi.

In primo luogo le nuove regole prevederebbero l’incandidabilità per un tempo doppio rispetto alla pena inflitta dalla magistratura a partire dai due anni di condanna. Cioè chi verrebbe condannato ad esempio ad un anno e sei mesi sarebbe perfettamente candidabile. E perché mai? Qual è la ratio di questa scelta? Passi per l’attesa del terzo grado di giudizio nel rispetto della presunzione d’innocenza d’ogni cittadino ma perché chi è stato condannato a diciotto mesi per peculato, potrebbe essere candidabile? Non ha senso un discrimine basato sulla lunghezza della pena dal giudice inflitta. Andrebbe basato il discrimine, casomai, sul tipo di reato commesso. Ma proprio su questo punto verte il secondo dubbio. La bozza indica tre grandi tipologie di reati come quelle che possono portare all’incandidabilità. Ci sono però dei “grandi assenti”. Su tutti i reati fiscali che, stando all’ipotesi che circola, non rientrerebbero tra le categorie punibili. E poi i reati contro la persona e la proprietà. Certo che quelli gravissimi inseriti nella bozza meritano di portare all’incandidabilità, ma perché altre tipologie di reato contro le persone, come la violenza, non meritano lo stesso destino?

Merita l’iniziativa del governo il beneficio del dubbio. Quelle che circolano sono indiscrezioni. La proposta del ministro Cancellieri verrà in questi giorni affinata insieme ai colleghi Filippo Patroni Griffi (ministro della Funzione Pubblica) e Paola Severino (ministro della Giustizia) e poi sottoposta al Consiglio dei Ministri e, solo a quel punto, potrà nel suo insieme essere valutata. Quello che è certo però è che, almeno ad oggi, anche in questo futuribile passo in avanti s’intravede una punta di timidezza. Prontamente rilevata da Carlo Federico Grosso su La Stampa. Il giurista pone infatti le seguenti domande ciascuna delle quali equivale a obiezione: dato che la maggior parte dei reati contro la Pubblica Amministrazione prevedono pene minime inferiori a due anni, perché quella soglia troppo alta per essere incandidabili? Si è incandidabili alla gestione della cosa pubblica quando in precedenza contro la cosa pubblica si è commesso reato, in questo caso applicare il “contatore” non è giustizia misurata ma legge sgonfiata. E perché, dice Grosso, “aspettare che la sentenza sia definitiva? Certo per la “presunzione di innocenza” fino al terzo grado di giudizio. Ma questo vale per la libertà personale dell’imputato, poi condannato e in attesa di appello. Deve valere anche per il suo andare in Parlamento, la candidabilità va salvata come la libertà personale?