Don Andrea Gallo, i funerali: prete degli ultimi o “rock star”?

di Franco Manzitti
Pubblicato il 25 Maggio 2013 - 07:00 OLTRE 6 MESI FA
Don Andrea Gallo, i funerali: prete degli ultimi o "rock star"?

Don Andrea Gallo con Maurizio Landini (foto Lapresse)

GENOVA – Prete da strada, prete da marciapiede, prete degli ultimi, prete comunista, prete delle prostitute, dei trans, di tutti i deboli, prete genoano, prete degli sconosciuti ma anche dei famosi, dei celebri, prete superstar, prete senza confini.

Intorno a don Andrea Gallo, che se ne è andato a 85 anni, un mercoledì pomeriggio di maggio a Genova, tra soffi di maestrale e un raro sole, stanno costruendo una specie di monumento che lui non avrebbe gradito e che probabilmente gli avrebbe fatto alzare quella mano con le dita ossute in un gesto di distanza, con un po’ di ironia e un po’ di allegria scaramantica.

Non aveva neppure accettato di guardare del tutto in faccia la malattia che lo stava portando via, dimagrendolo, rendendolo fragile come non mai e in contrasto alla sua vigoria di cuore, un tumore ai polmoni. E ci credo con quel sigaro sempre in bocca, che lui diceva lo aiutasse anche a pregare!

Andrea, “Il Gallo” o il “Vecio”, come lo chiamavano i suoi ragazzi, aveva sempre da fare, con quel capello in testa, un po’ un basco, un po’ un colbacco, un po’ a larghe tese, e, comunque, in una divisa sempre da prete, magari sgargiante, come nelle cerimonie liturgiche, ma mai equivocabile dal suo mestiere: il prete.

Quel male che lo ha strappato via dalla sua Comunità di san Benedetto al Porto, fondata nel 1970 e che lo ha trasformato nei decenni da semplice prete con le sue idee “forti” e di libertà, comunista come dicevano i suoi nemici, in un volontario delle frontiere più difficili della società moderna: la droga, ma anche le altre dipendenze dall’alcool, dall’usura, dal gioco, dalle macchinette (l’ultima sua battaglia), il dilagare della prostituzione, la carne in vendita delle donne immigrate e poi i trans.

Era un cuore grande quello che si è fermato praticamente nelle mani di un altro “santo” genovese, il medico Franco Henriquet, colui che accompagna a morire, attutendo le sofferenze dei mali cattivi. “Il cuore resiste, ma fatica a respirare”_ aveva detto quel medico, poche ore prima della morte che la città di Genova e un po’ tutta l’Italia hanno annunciato come se fosse già avvenuta. I giornali di Genova, “Il Secolo XIX” e l’edizione ligure di “Repubblica”, hanno cominciato a scrivergli il coccodrillo due giorni prima.

Inevitabile che avvenisse, perché la grande spinta del cuore di Don Gallo lo aveva trasformato, nella velocità della comunicazione moderna in una specie di icona, prima una star televisiva e poi l’eroe del web, moltiplicato per milioni e milioni dai social network. Per fortuna lui, il prete contestatore, polemico, politicizzato al punto da scegliere e lanciare l’ultimo sindaco di Genova, il marchese “rosso” Marco Doria, ( che senza di lui ora avrà i suoi guai), era di carne e ossa e sangue e idee forti e faccia da mettere sempre davanti. Ma non era mai uno “contro” la sua Chiesa, uno che avesse veramente sfondato quelle gerarchie ecclesiastiche, secondo i facili biografi di oggi in attesa da sempre non di altro che di farne un boccone.

Andava perfino d’accordo con il cardinale principe Giuseppe Siri, che lo accolse, da salesiano pentito per le regole troppo rigide dell’Ordine di Don Bosco, nel gregge secolare di Genova, mandandolo, tanto per incominciare il suo servizio, a fare il Cappellano del carcere della Capraia, isola toscana che cadeva sotto la Curia genovese, eredità delle Repubbliche marinare. Siri lo “marcava”, lo mandava a controllare dai suoi monsignori, mentre predicava nella Chiesa del Carmine dove dopo la Capraia era diventato vice parroco.

Gli inviati di Siri prendevano appunti sulle sue omelie infuocate, che sparavano a zero sulle falsità e i sepolcri imbiancati che censuravano chi prendeva la droga, ma non si accorgevano delle altre “droghe” propinate ai giovani da una società consumistica e materialista che non si accorgeva dei poveri, dei deboli. Ma poi Siri, più che rimandarlo alla Capraia non aveva fatto, suscitando con quella “punizione” la reazione che avrebbe fatto, all’alba degli anni Settanta, di Don Gallo, quello che poi è diventato e che ora urla nei titoli dei giornali e delle trasmissioni tv: il prete degli ultimi.

Fu quella mossa della Capraia a spingere don Andrea in quella piccola chiesa insignificante, all’ombra del Palazzo del Principe, San Benedetto del Porto, dove un parroco generoso e silenzioso, don Federico Rebora, che ora piange sulla sua bara, lo accolse, come si accoglie un senza tetto.