Sì, il capitale è ereditario ma anche il capitalismo?

Pubblicato il 9 Marzo 2009 - 18:02| Aggiornato il 12 Marzo 2009 OLTRE 6 MESI FA

Il mondo dei mass media americano è in fermento da qualche giorno, da quando Gawker, un sito che del pettegolezzo editoriale ha fatto un articolo di fede, ha lanciato il tema: perché il figlio del capo viene assunto, mentre altri giornalisti, a decine, sono licenziati?

I protagonisti sono Arthur Ochs Sulzberger jr. attuale capo supremo del New York Times, pronipote di Adolph Ochs, rifondatore del giornale semifallito a fine ottocento, e il figlio di Arthur Ochs, Arthur Gregg, che è diventato la pietra dello scandalo. La storia si inserisce sullo sfondo di un dramma familiare, di quelli che lacerano milioni di famiglie di oggi, ma che quando riguardano le famiglie aristocratiche assumono i toni della soap opera: infatti il padre di Arthur Gregg, Arthur Ochs, ha lasciato la rispettiva madre e moglie e pare si veda, ha riferito tempo addietro sempre Gawker, con una signora sposata, separata di fatto, con la quale non convive.

Come tutti i figli legati alla mamma, cioè tutti, Arthur Gregg, che già lavorava in un giornale del gruppo, ma dall’altra parte dell’America, in Oregon, il giovanotto, appena ventottenne, ha cercato di tornare a casa, per starle vicino e guarda caso, ha trovato subito lavoro, naturalmente al New York Times. Dicono che sia bravo e che abbia ben meritato sia in provincia sia nella metropoli.

Ma il punto non è se sia bravo o bravino o bravissimo. E nemmeno se sia giusto che il giornale governato dalla famiglia lo abbia assunto mentre tanti altri sono stati esarenno mandati via.

Il tema è più di fondo e riguarda la coesistenza del capitalismo di famiglia con il concetto altrettanto capitalistico di meritocrazia in momenti di crisi e trasformazione globali, particolarmente acuti per il mondo dell’informazione. Non è solo la famiglia Sulzberger a essere messa in discussione. Nel settore, c’è bufera intorno al desiderio di Rupert Murdoch di lasciare a uno dei figli il timone della azienda da lui portata agli attuali livelli planetari (è presente in Italia con Sky, la tv satellitare). E quasi non passa giorno che non ci siano colpi di scena nella saga di Sumner Redstone (Viacom, cioè Cbs e Mtv)  e della figlia (lui ha 84 anni, la figlia una sessantina; lui sta divorziando dalla moglie quarantenne per mettersi con una ventenne che faceva la hostess sull’aereo aziendale).

Il nonno di Athur Ochs Sulzberger  si chiamava Arthus Hays, era un bell’uomo che sapeva come gestire un’azienda editoriale e che aveva sposato Iphigene Ochs, a sua volta figlia di Adolph Ochs, un mito nella storia del giornalismo. Gli offrirono il New York Times che era praticamente fallito e vendeva diecimila copie. Contro il parere di tutti gli esperti, abbassò prezzo di copertina e tariffe pubblicitarie e il giornale decollò. Investì nel prodotto per reggere alla concorrenza di una mezza dozzina di giornali che all’epoca uscivano a New York: oggi sono ridotti a tre, l’unico sopravvissuto di qualità elevata è il New York Times.

Sono storie d’altri tempi, in cui giganteggia Ifigene Ochs, per molti aspetti il vero editore del giornale, in un’epoca in cui le donne non andavano a votare.

Ma oggi il mondo è cambiato, la New York Times Company è quotata in borsa, i soldi ce li hanno messi in tanti altri, nel confronto quelli della famiglia Sulzberger sono molto pochi. La famiglia governa e esprime le cariche sociali grazie a un sistema di azioni che valgono poco in termini di capitale investito ma sono le uniche ad avere diritto di voto. Il che vuol dire che i soci che hanno messo i soldi nel New York Times contano davvero poco, contenti della situazione finché il vento era in poppa e il titolo e i dividendi crescevano.

Anche da noi ci sono situazioni analoghe, ma finora nessuno si è lamentato. Negli Usa, invece, gli investitori terzi hanno cominciato a farlo.

Ecco che allora il dibattito esce dai confini di una redazione e diventa tema di politica economica oltre che di giustizia e di democrazia. Appare a tutti evidente che il giovane Arthur Gregg sta imparando il mestiere del giornalista per poter fare domani con cognizione di causa il mestiere di editore. Così ha fatto suo padre e prima ancora di lui suo nonno. In America, si deve  ricordare, l’editore non è una figura remota come da noi. Anche se nella gestione dell’informazione il suo ruolo è limitato, almeno in teoria, alla nomina e al licenziamento del direttore, dall’editore dipende invece direttamente chi provvede alla stesura degli editoriali, gli articoli di fondo, che non sono pubblicati, come da noi, in prima pagina, ma sono raccolti in una apposita pagina interna, sul New York Times la penultima. Ha quindi un ruolo attivo, codificato, nella formazione dei contenuti del giornale.

Ora è evidente che c’è una grande differenza tra fare il giornalista oggi, sapendo che domani sarai il capo di tutti loro e che il tuo destino è già deciso, il tuo posto assegnato, la tua carriera decisa, che l’errore degli altri è una grave colpa che merita il licenziamento mentre il tuo posto non è mai in discussione; e fare il giornalista come lo fanno migliaia di altri, in quella che negli anni sessanta si chiamava la corsa dei topi, tutti a scannarsi per arrivare, anche solo alla fine del mese.

E viene da domandarsi se, in un sistema capitalistico esasperato come quello in cui viviamo, che è peraltro il presupposto della moderna democrazia, nella quale le dinastie sono state espunte o ridotte a pura apparenza, sia giusto che i poteri assoluti, quasi dittatoriali, di cui gode il capo di un’azienda, siano trasmessi di padre in figlio, proprio come nell’ancién regime?