Il pasticcio del buco di Roma

di Marcello Degni
Pubblicato il 22 Marzo 2010 - 12:10| Aggiornato il 26 Febbraio 2020 OLTRE 6 MESI FA

Il sindaco di Roma Gianni Alemanno

All’indomani della presa del Comune di Roma la destra gridò “al buco, al buco”. La tattica non era originale, ma si basava sul consueto mal comune mezzo gaudio: Storace alla Regione aveva prodotto la voragine da 10 miliardi, ma anche Veltroni, al Comune, non era stato, in proporzione, da meno. Per questo, nel primo decreto-legge finanziario del governo Berlusconi (112/2008), viene riservato un intero articolo alle “misure urgenti per Roma capitale”.

Pomposamente il sindaco viene nominato “commissario straordinario” ed assume, in un “bilancio separato rispetto a quello della gestione ordinaria, tutte le entrate di competenza e tutte le obbligazioni assunte alla data del 28 aprile 2008”. Come dire: prima di me il disastro, che viene congelato. Ora la ripartenza, da zero, verso la conquista di nuovi orizzonti e nuove sponde.

Questi due anni hanno mostrato, oltre al poco che è stato fatto, la natura esclusivamente mediatica del dissesto annunciato. Ma una cosa era evidente fin dall’inizio: l’impossibilità pratica di interrompere la continuità amministrativa, di congelare quanto accaduto fino al primo quadrimestre del 2008 dal dopo, come se la rata di un mutuo per la metropolitana, contratto qualche anno fa e in scadenza oggi, fosse diversa dalla rata di un nuovo mutuo, stipulato con virile penna dal nuovo sindaco dopo il fatidico 28 aprile.

Per il comune di Roma è stata applicata una procedura anomala che, pur mutuando gli interventi necessari dalle norme sul dissesto, ne ha escluso la sua dichiarazione. Tirato il sasso sulla precedente amministrazione si è nascosta la mano sulle conseguenze (cioè il commissario prefettizio previsto dalla dichiarazione di bancarotta). Su questa base sono stati concessi 500 milioni di euro per il 2008, “nelle more della approvazione del piano di rientro” e, nel 2009 la storia si è ripetuta, pescando le risorse dal Fondo per le aree sottosviluppate (FAS).

Dall’anno 2010 è stato prospettato a favore di Roma capitale un contributo annuale di 500 milioni di euro nell’ambito delle risorse disponibili, demandando ad un successivo provvedimento l’individuazione delle risorse ed il loro stanziamento. Più coerente sarebbe stato evitare la rincorsa dei buchi e rifinanziare la legge per Roma Capitale (396/1990), come era stato fatto, attraverso la legge finanziaria, fino al 2007 (Governo Prodi), anno in cui erano stati stanziati circa 600 milioni di euro (212 milioni di euro per ciascun anno 2007 e 2008 e 170 milioni di euro per il 2009). E questa sarebbe stata probabilmente la strada se, nelle elezioni del 2008, non si fosse verificato l’inaspettato avvicendamento al vertice del Comune di Roma.

A quasi 2 anni dal voto, esaurito l’effetto annuncio del buco ereditato, da più parti si vorrebbe risolvere in qualche modo il pasticcio, tornando ad una situazione di normalità amministrativa.

Con il decreto-legge 2/2010 erano stati abbozzati, in fase di conversione presso la Camera dei deputati, dei tentativi in tal senso, ma l’ennesima fiducia, il 4 marzo 2010, ha azzerato tutto. L’onorevole Marsilio in commissione aveva provato con un emendamento, respinto, ad accollare l’onere al bilancio dello Stato, sostituendo nella gestione separata il sindaco con un commissario di governo. Mentre il testo uscito dalla commissione, si limita a toglierla al sindaco, affidandola ad un commissario governativo, che dovrebbe applicare alcune norme che regolano il dissesto finanziario.

Ma è proprio il regime del dissesto che appare inadeguato al processo in atto, di devoluzione di funzioni sempre maggiori agli enti territoriali. Può essere una valida norma di chiusura dell’ordinamento, per responsabilizzare il policy maker ad una corretta gestione ordinaria della finanza comunale. Ma non è adatto per gestire una situazione prolungata nel tempo.

Nel caso di squilibrio strutturale, che rende problematico l’adempimento di una funzione fondamentale, andrebbe invece previsto un sistema di regole che, con progressività, induca l’ente inadempiente a rientrare nella normalità, stimolandolo, con aiuti e sanzioni adeguate, e limitando temporaneamente la sua sfera di autonomia, fino al superamento della crisi.

Lo schema è quello dei piani di rientro per i disavanzi strutturali della sanità che, da ultimo, la legge finanziaria per il 2010 ha esteso anche ad altre tipologie di inadempimento delle regioni. Si sarebbero potute mutuare da quella disciplina alcune disposizioni valide anche per i comuni e, in prima applicazione, sperimentare questa logica con il Comune di Roma.

In tal senso si era mossa una proposta, presentata in Assemblea dall’on. Causi ed altri deputati romani del PD che prevedeva: il superamento della distinzione tra gestione ordinaria e straordinaria; la redazione di un piano di rientro (triennale a scorrimento); l’individuazione di un sistema di monitoraggio periodico (semestrale); e il condizionamento del maggior finanziamento alla attuazione del piano. Una ipotesi interessante che, a regime, potrebbe essere integrata con la definizione di un sistema di sanzioni progressive (tra cui l’incremento automatico delle imposte locali), nonché il commissariamento, da modulare per ambiti di attività, onde evitare di travolgere l’intera sfera di azione dell’ente locale.

Ora la palla passa al Senato, con la speranza che l’ennesima fiducia non spazzi via ogni ipotesi di ragionamento.