E se grattando sotto la “democrazia del web” ci scopri la dittatura delle élite?

di Antonio Sansonetti
Pubblicato il 19 Giugno 2012 - 10:50| Aggiornato il 18 Marzo 2013 OLTRE 6 MESI FA
Piazza Tahrir al Cairo (Ap-Lapresse)

ROMA – La “vera democrazia”? Non ha necessariamente la “e” davanti, quella di e-democracy, la “democrazia digitale”, ovvero il potere (-cracy) del popolo (demo-) del web (e-).

Di fronte alla crisi dei sistemi democratici occidentali, quasi tutti sempre più oligarchici e sempre meno partecipati, la Rete è vista come un’ancora di salvezza per rifondare la democrazia “dal basso” e includere una vastissima platea di cittadini-utenti nella vita politica, nei processi decisionali, nelle proteste, nelle “rivoluzioni”. È una speranza che si nutre di molti miti, la gran parte da sfatare. In questo aiuta un articolo di Serena Danna sul Corriere della Sera, che ha rimesso in circolo molte idee sulla e-democracy.

Il mito del “popolo del web”. Non esiste, come Babbo Natale. È un’astrazione, una divinità alla quale richiamarsi per dare più forza alle proprie convinzioni e/o battaglie e/o campagne. Se fosse un santo, sarebbe il Santo Protettore dei Lobbisti. Quante volte sentiamo dire: “Il popolo del web vuole così… Il popolo del web vuole colà”. Ogni volta che il dibattito pubblico – fosse anche sulla votazione del vincitore di un talent show – prende direzioni inaspettate, portando a decisioni o esiti che sovvertono i rapporti di forza esistenti, se ne dà la colpa o il merito al sunnominato “popolo”. Come se due miliardi di utenti (tanti sono stati stimati i “cittadini digitali” a fine 2011) potessero agire come un sol uomo o volere le stesse cose come un solo partito. Avviso agli aspiranti dittatori: non è così.

…E con la Rete puoi far la rivoluzione. Parafrasando L’inno del corpo sciolto di Roberto Benigni, e sostituendo il più antico dei fertilizzanti con internet, ottieni un altro dei miti più diffusi: la “Twitter revolution”. Così è stata definita la “primavera araba”, che ha scosso tutti i Paesi del Nordafrica nel 2011. Una sollevazione diffusa e trasnazionale senza precedenti in quella regione, della quale ci sono arrivate – come mai prima – tantissime testimonianze tramite i social network. Ma da qui a dire che i regimi sono caduti (ma poi sono caduti davvero?) grazie a Facebook, ce ne vuole. Lo dicono i numeri datati fine 2011 dell’Arab social media report della Dubai school of government: in Egitto usa Facebook solo il 10% della popolazione, in Siria il 6%, in Libia il 3,74%. Lo 0,03% dei siriani ha un account Twitter, come lo 0,07% dei libici e lo 0,15% degli egiziani.

Internet mobilita l’uomo (democratico). Il successo di Obama alle presidenziali americane del 2008; con le dovute proporzioni la rielezione di Nichi Vendola in Puglia nel 2010; il successo del “Partito dei pirati” in Svezia e Germania e il boom del Movimento a 5 stelle di Beppe Grillo in Italia. Molto di tutto questo è stato reso possibile grazie al web, che sicuramente è un ottimo mezzo per fare campagne elettorali spendendo poco. Ma se non c’è un gruppo di persone che lavora bene e compone la musichetta giusta, le note del pifferaio di turno non sedurranno nessuno. Né tantomeno faranno risvegliare lo spirito del “popolo del web” e tremare le gambe del tavolo (della politica).

Una testa, un clic, un voto. È un mito anche quello della tavola rotonda infinita, alla quale connettersi per partecipare, contando esattamente come gli altri. Non tutti i clic sono uguali. Come si è visto con gli esempi precedenti un pool di comunicatori ben organizzato può mobilitare milioni di clic e di voti. Il rischio di essere eterodiretti è sempre in agguato. Il titolo dell’articolo di Danna sul Corriere è “il web non rafforza i cittadini ma dà potere alle tecno-élite”. Quali siano queste élite lo spiega Wainer Lusoli*: “Giornalisti, accademici impegnati, premi Nobel, giovani attivisti politici locali: loro “i pochi” – rappresentano la porta di entrata per “i molti”, che non hanno gli incentivi, le risorse culturali o la volontà di informarsi quotidianamente”.

Il mito della reciprocità e dell’assenza di gerarchie. I clic non sono tutti uguali e non tutti gli scambi sono alla pari. Internet sembrava aver realizzato quella struttura anarchica del pensiero che i filosofi Gilles Deleuze e Felix Guattari avevano identificato nel “rizoma” ovvero una radice che si sviluppava in orizzontale come una rete, contrapposta al pensiero “arborescente”, che si sviluppava in verticale – quindi secondo gerarchie – come un albero. In realtà il web si è riempito di strutture e di rapporti piramidali. Come quelli dei politici o delle popstar con i loro “fan” o con i loro “follower”. Soprattutto i social network danno l’illusione di poter comunicare direttamente con persone “famose”, che però sono più occupati a farsi pubblicità che a rispondere ai commenti dei fan/follower.

I “ragazzi del muretto”. Alla gerarchizzazione del web contribuisce anche il fatto che il “villaggio globale”, la sconfinata metropoli di silicio, si sta frazionando sempre più in tanti microcosmi chiusi e non comunicanti fra loro. Finiamo la maggior parte delle volte per fare “vita di quartiere”, ogni volta che ci connettiamo a Twitter o Facebook, o facciamo ricerche su Google. Questo succede perché il meccanismo dei “filtri” e delle “cerchie” ci fa trovare solo le persone che hanno i nostri stessi interessi e i siti o i mezzi di informazione che ricalcano le nostre stesse convinzioni. I wall dei social network, la schermata iniziale in cui vediamo cosa hanno postato i nostri “amici” o “seguaci”, si è trasformato in un “muretto” in cui incontriamo sempre le stesse facce e si sentiamo sempre gli stessi discorsi: quelli del “quartiere” o dell’enclave digitale di cui facciamo parte.

C’è chi ci vede un nuovo divide et impera, e in questo caso non sono le tecno-élite, ma i colossi del web a dividere e comandare, frammentando l’agorà digitale in tante piazzette chiuse. Che non danno fastidio a nessuno.

 

*Direttore dell’istituto europeo for Prospective Technological Studies del Ccr, Centro comune di ricerca della commissione europea