Quando il Trota sedeva al governo, la tribù che doveva diventar dinastia

di Lucio Fero
Pubblicato il 5 Aprile 2012 - 14:13 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Il quotidiano La Stampa riscopre e rispolvera un gustoso aneddoto, quello in cui Umberto Bossi narrava del figlio Renzo: “Parla così bene l’inglese tanto da aver fatto l’interprete nell’incontro tra Berlusconi e Hillary Clinton”. Una fanfaronata cui nessuno credeva e poteva credere. Ma Bossi papà ci credeva dopo averla inventata. E non era, per lungo tempo non è stato isolato aneddoto. Era la regola, il costume. Da tutti accettato. Papà Bossi regolarmente portava il figlio Renzo alle riunioni di governo a Palazzo Chigi e ai vertici a Plazzo Grazioli. Sedeva lì Renzo Bossi, tra Tremonti e Gasparri e Maroni ministri. Nessuno trovava nulla di dire. Cosa facesse lì seduto Renzo Bossi, ai vertici della politica e del governo, è dato solo di immaginare. Le cronache riportavano più o meno ossequiose la sua presenza e si fermavano lì. Ascoltava, prendeva appunti, faceva disegnini con penna e matita sulla carta? Porgeva a papà il braccio e i documenti? Interloquiva, assentiva, faceva scena muta? Una cosa sola era certa e accertata, nonché accettata e considerata ovvia: il diritto del figlio di Bossi a star in qualche modo, sia pure da ospite, al governo.

Diritto di sangue, diritto ereditario. Diritto che faceva di Renzo Bossi un apprendista governante che faceva pratica. Diritto di clan, diritto tribale. E nessuno faceva un fiato, al massimo si derubricava a “folklore” il fatto che il capo clan si portasse il figlio nelle riunioni di governo. Il figlio cui Umberto Bossi una sera aveva fatto giurare e gridare da un balcone “Padania libera”. E non era un proclama, era un’investitura. Bossi lo aveva chiarito ai leghisti e agli italiani tutti qual era la linea ereditaria. E nessuno fece un fiato, nella Lega e in tutta Italia, sulla reintroduzione di fatto nella Repubblica di un principio monarchico-tribale.

Ora si scopre che il “familismo” imperante al vertice della Lega era forse anche “amorale”. Si scopre una cartella “The Family” nelle carte dove il tesoriere Belsito annotava le destinazioni dei soldi pubblici versati a un partito politico. Si leggono le conversazioni tra Francesco Belsito e Nadia Dagrada, impiegata amministrativa della Lega: “Gli dici: capo, guarda che è meglio che sia chiaro, se queste persone mettono mano ai conti del Federale, vedono che quelle sono le spese di tua moglie e dei tuoi figli…Papale papale glielo devi dire: ragazzi, forse non avete capito che, se parlo io, voi finite in manette o con i forconi appesi alla Lega”. Erano i “consigli” che la Dagrada dava a Belsito. Quanto, è proprio il caso di dire quanto, sia stato “amorale” si vedrà nel prosieguo delle inchieste mosse da ben tre Procure. Non era e non è dato sapere quel quanto. Ma che fosse “familismo” lo sapeva l’intera nazione, tutti i giornali, tutto l’elettorato. Lo sapevano anche lo Stato e le istituzioni che a Renzo Bossi riservavano una sedia nella sala riunioni invece che farlo accomodare in anticamera. Lo sapevamo tutti e nessuno fiatava. Perché non era e non è familismo “padano”, è familismo italiano al cento per cento. Il familismo che è padre e madre di ogni danno pubblico a vantaggio appunto della famiglia. Il familismo invocato sempre o quasi sempre dalla gente comune ad attenuante, anzi scusante di ogni illecito. Sì, i Bossi son proprio italiani: la famiglia e la tribù come supremo valore e fondamentale missione.