Magistrati in politica: candidati solo dopo un anno

di Michele Marchesiello
Pubblicato il 30 Dicembre 2012 - 11:25| Aggiornato il 31 Dicembre 2012 OLTRE 6 MESI FA
Magistrati in politica: candidati solo dopo un anno

Le recenti candidature di Antonio Ingroia e Pietro Grasso (sotto altri aspetti non facilmente assimilabili) hanno riproposto la domanda se esista una specifica ‘vocazione’ dei magistrati per la politica e quali ne siano le ragioni, i vantaggi e gli svantaggi, le controindicazioni.

Le ragioni. Se si lasciano da parte le motivazioni individuali, legate alla personalità e alla storia di ciascun magistrato, si direbbe che corra tra giudici e politica un rapporto di amore-odio, puntualmente corrisposto dalla politica. Se da un lato il giudice è portato dalla sua funzione a diffidare della politica e, soprattutto dei suoi esponenti, è innegabile – dall’altro lato – che la sua attività lo costringe quasi sempre a doversi misurare con le conseguenze politiche delle sue decisioni.

La questione non appare così grave in altri paesi, come negli Stati Uniti ad esempio, dove l’adesione di un giudice a un partito non suscita scandalo particolare ed dove si accetta che siano i partiti a influire in modo decisivo sulla carriera di un giudice o di un pubblico ministero. Tutto è infatti molto più semplice in un sistema nel quale le differenze tra i partiti non siano troppo marcate ( si è conservatori o progressisti: le altre scelte sono marginali e in pratica ininfluenti) e l’adesione all’uno o all’altro non venga considerata come una scelta di fede e di identità tale da poter compromettere la indipendenza di un magistrato.

In Italia i magistrati giurano fedeltà alla Repubblica e alla Costituzione. Questo dovrebbe bastare a scongiurare il pericolo. L’iscrizione a un partito ( come a un circolo del tennis, o al Rotary o a un sindacato) non dovrebbe di per sé comportare conflitti di fedeltà.

Non è così, purtroppo. La mai debellata malattia ideologica rende la scelta politica quasi religiosa e irreversibile, a pena di essere tacciati di tradimento.

La legge vieta dunque ai magistrati l’iscrizione a un partito. Non può naturalmente vietare la loro adesione di fatto. Negli ambienti giudiziari tutti conoscono quale sia l’orientamento genericamente ‘politico’ di un magistrato, e ne tengono conto, come è naturale.E’ lo stesso interessato a dovere tener conto dell’idea che il pubblico si fa delle sue preferenze politiche, e prendere le misure opportune perchè non si possa , per questa sola ragione, dubitare della sua obiettività e imparzialità.

Quali i vantaggi dell’assunzione di un ruolo espressamente politico da parte di un magistrato? Sicuramente l’esperienza e la pratica della legalità portano un contributo prezioso, come prezioso è il contributo di una tecnica e di una mentalità addestrate e abituate a coniugare gli interessi in campo col rispetto di fondamentali criteri di eguaglianza e correttezza istituzionale. Minor valore attribuirei, invece, alla popolarità che il giudice può essersi guadagnato sul campo grazie alle proprie iniziative o alle proprie decisioni .

Gli svantaggi riguardano prima di tutto la complessiva perdita di credibilità dell’istituzione giudiziaria, non apparendo ingiustificato il sospetto che l’azione dei suoi componenti possa – in determinate circostanze – essere condizionata da aspirazioni incompatibili con la funzione e la deontologia della magistratura nel suo complesso. Non solo. La scelta di candidarsi getta un’ombra restrospettiva sull’operato dell’interessato, sulle sue motivazioni e ambizioni finalmente rivelate. Esiste – di fronte all’opinione pubblica – non solo un obbligo di imparzialità del giudice nel presente e verso il futuro, ma anche nei confronti del suo operato pregresso, che rischia dio restarneirreparabilmente oscurato e macchiato.

Che dire, cosa suggerire allora di fronte a un fenomeno che sconcerta i cittadini tutti, interessati, indipendentemente da un loro diretto coinvolgimento, allo svolgimento imparziale della funzione giurisdizionale ?

In prima battuta, si sarebbe portati a desiderare l’abolizione del divieto di iscriversi a un partito politico, lasciando al singolo magistrato la responsabilità di assolvere con dignità e onestà istituzionale al proprio ufficio e, allo stesso tempo, rinunciando una volta per tutte ad attribuire all’adesione formale a un partito il significato aberrante di una scelta capace – agli occhi dei più – di condizionare il giuramento prestato alla Costituzione che li vuole soggetti soltanto alla legge.

Più realisticamente, basterebbe adottare alcune misure che, senza precludere al magistrato l’accesso a una carriera politica, salvaguardassero l’immagine del magistrato stesso e quella della magistratura nel suo insieme.

Pensiamo non tanto alla proposta di costringere l’interessato ad abbandonare l’ordine giudiziario, o al divieto di candidarsi nella sede in cui ha esercitato le ultime funzioni. Il primo limite è troppo radicale e incide in misura sproporzionata sulla condizione professionale e sui diritti individuali del magistrato, pur sempre un cittadino uguale agli altri. Il secondo è irrilevante ( cambierebbe qualcosa il divieto di candidare nella sua sede un giudice popolare a livello nazionale ?) o facilmente eludibile, essendo sufficiente ‘programmare’ la candidatura ricorrendo a un tempestivo trasferimento.

Di gran lunga più efficace sembra essere il divieto di candidarsi se non sia trascorso un congruo periodo di tempo ( almeno un anno ) dalla collocazione in aspettativa o ‘fuori ruolo’ o dall’uscita dall’ordine giudiziario. Altrettanto efficace sarebbe una rigorosa regolamentazione dell’eventuale ritorno dell’interessato all’esercizio delle funzioni giudiziarie, una volta chiusasi la ‘parentesi’ dell’esperienza politica.

Ma, come spesso accade nel nostro Paese, le misure più semplici sono le più difficili da adottare, e la preferenza del legislatore andrà alla logica, anche troppo familiare, del divieto in apparenza assoluto ma, nella pratica, facilmente eludibile.