Crisi: i comunisti danno lezioni ai capitalisti

Pubblicato il 12 Agosto 2011 - 17:23 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – E’ quantomeno grottesco che allo scoppio di una delle più gravi crisi finanziarie (e non solo) dell’ultimo secolo, quale quella che stiamo oggi attraversando, a farsi avanti con il ditino alzato per ammonire, giudicare, consigliare, sia il maggior paese comunista del mondo, la Cina. La potenza “capitalistica” per eccellenza, gli Stati Uniti, è sommersa dai debiti e il rating dei suoi T bond viene declassato da Standard e Poor’s (questa sì chiaramente un’emanazione della Quinta internazionale); i suoi scherani europei fondano una nuova moneta e anch’essa finisce nei marosi mentre alcuni dei paesi che la utilizzano sono candidati al Premio Default.

Inevitabile che i “cattivi maestri” di un tempo diventino i maestri tout court, con tanto di matita rossa. Così Washington è costretta a ingoiare dall’agenzia di Pechino Xinhua lezioncine del genere “sono ormai finiti i tempi in cui sperperare a piacere i prestiti illimitati presi all’estero”, oppure un consiglio-minaccia del tipo “una nuova moneta (rispetto al dollaro, ndr.), stabile e garantita come riserva globale, può anche essere un’opzione per evitare una catastrofe causata da un singolo paese (leggi: Usa, ndr.)”. La già citata agenzia del Dragone arriva a ipotizzare rudemente una “supervisione internazionale” sulle emissioni della valuta Usa.

Non si tratta delle antiche sbruffonerie di chi è erroneamente convinto della superiorità del suo sistema economico e sociale ma dell’opinione di un interlocutore autorevolissimo e interessatissimo al buon governo del biglietto verde. La Repubblica Popolare – che detiene circa il 40 per cento delle complessive riserve valutarie mondiali – ha in saccoccia circa 3.200 miliardi di dollari Usa, pari al 70 per cento delle sue riserve. Inevitabile che i massimi dirigenti del Dragone siano un tantino preoccupati dei recenti avvenimenti borsistici e valutari.

D’altra parte, se fino a qualche tempo fa all’orizzonte si affacciava la possibilità di una parziale e progressiva sostituzione dei dollari (e dei T bond) nei forzieri cinesi con l’euro, oggi questa strada appare ancor meno percorribile, soprattutto per due buoni motivi. In primo luogo perché anche l’euro non sta granché bene, colpito da una crisi che dalla Grecia si sta estendendo a tutti i Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) e financo alla Francia: la Cina ha già il 20 per cento delle sue riserve in euro e questo certo non la tranquillizza. In secondo luogo una massiccia alienazione dei dollari detenuti da Pechino potrebbe determinare una svalutazione ancor più rapida e catastrofica della valuta americana e si ritorcerebbe quindi sul venditore.

Non resta quindi che la via diplomatica, fatta di lusinghe e minacce, per indurre gli stampatori di biglietti di Washington (e anche quelli di Francoforte) a essere più morigerati e a tagliare la spesa pubblica. Qui siamo al paradosso del paradosso: non solo il primo paese comunista dell’orbe si preoccupa del buongoverno finanziario del primo paese capitalista ma addirittura preme perché quest’ultimo tagli il welfare (che peraltro i cinesi si sognano) oltreché, e questo è invece più scontato, le spese militari. Pechino, insomma, dovendo scegliere fra repubblicani e democratici non ha dubbi: meglio la mannaia sulla spesa pubblica auspicata dal partito dell’elefante.

Coerentemente, la potenza asiatica guarda con orrore alla possibilità che dall’altra parte del Pacifico venga varato, come si sta progettando, un nuovo piano di “quantitative easing”, cioè in pratica una massiccia iniezione di liquidità per stimolare la congiuntura, perché teme che potrebbe comportare ripercussioni inflazionistiche nella stessa Cina, dove il problema dei prezzi è già al primo posto nelle preoccupazioni del governo (a luglio l’inflazione ha raggiunto il record del 6,5 per cento, malgrado i continui rialzi dei tassi).

La “diplomazia” cinese, oltre ad ammonire e sgridare “le vecchie democrazie occidentali” per la loro finanza allegra, guarda anche oltre: sta ponendo in atto tutto un lavorìo per realizzare in prospettiva un nuovo sistema monetario internazionale, non più legato a doppio filo a dollaro ed euro ma invece basato su un più ampio paniere di monete. In esso dovrebbero pesare sostanzialmente le valute dei nuovi paesi che già detengono una parte importante della crescita economica mondiale: India, Russia, Brasile, Messico, Corea del Sud e, naturalmente, la Cina il cui yuan proprio in questi giorni si è significativamente rivalutato. Ma è con tutta evidenza un progetto di lunga lena e i dirigenti di Pechino hanno ben presente la replica di J. M. Keynes a chi gli rimproverava di occuparsi troppo della congiuntura e non abbastanza delle questioni di lungo periodo: “Sul lungo periodo saremo morti”.

La Repubblica Popolare lavora quindi al grande sogno di un impero dello yuan ma nel frattempo non lesina lezioni e stroncature (“gli Usa sono inaffidabili”). Consapevole, peraltro, che, come ha detto un ex dirigente della Banca centrale cinese, “Pechino è un cacciatore in trappola: più vince e più perde”: più il suo prodotto lordo si avvicina ad eguagliare quello statunitense (intorno al 2018), con ritmi di sviluppo a due cifre, più aumentano al galoppo le sue esportazioni, più le monete “capitalistiche” s’indeboliscono e però rimpinguano i suoi enormi forzieri. Stretto in questa contraddizione difficile da superare, il paese del Dragone, malgrado le diffide, è costretto a “dare una mano” ai portabandiera del plusvalore, come ha fatto massicciamente durante la crisi finanziaria del 2008.

Così assieme al bastone il Dragone sfodera la carota e blandisce le “vecchie democrazie” plutocratiche che si ostinano a “vivere al di sopra dei propri mezzi”. Ecco quindi che, tanto per fare un esempio, un consigliere della People’s Bank of China, rassicura: “La Cina continuerà ad acquistare titoli di debito americani ed europei ma chiede in cambio che i governi occidentali si impegnino a varare riforme di lungo periodo per invertire il trend di declino dei conti pubblici”. Una dichiarazione che ricorda molto quelle della Bce di Francoforte o della commissione di Bruxelles ai partner più indisciplinati: è la globalizzazione, bellezza.