Astensione: la politica ha meno soldi per comprare i voti e poi non è “peccato”

di Riccardo Galli
Pubblicato il 13 Giugno 2013 - 15:29 OLTRE 6 MESI FA
Astensione, in Italia meno che in Usa e Gb: il non voto non è un peccato sociale

Ignazio Marino: alle ultime comunali di Roma meno astensione rispetto a New York e Londra (LaPresse)

ROMA – Astensione record alle ultime elezioni comunali: ha votato per la prima volta meno del 50% degli aventi diritto. E se fosse una cosa accettabile, magari persino buona? Per l’ex sindaco Gianni Alemanno l’astensione ha contribuito in modo netto all’affermazione di Ignazio Marino. “Vince chi vota” ha fatto scrivere sui manifesti il candidato pidiellino al Campidoglio e, sempre Alemanno, ha definito il calo dei votanti un fenomeno “che merita attenzione”.

Preoccupati come lui dal numero record di astenuti, quasi tutti gli schieramenti politici. L’astensione è infatti percepita come una sconfitta della politica. Ma l’astensione è davvero un male, il male supremo per la democrazia? O magari ci ostiniamo solo a credere che sia così? E negli altri paesi, quanti cittadini si recano alle urne? E noi in Italia perché eravamo e ancora siamo quelli che a votare vanno più numerosi?

Roberto D’Alimonte, intervistato da Repubblica, è forse la prima voce fuori dal coro sul tema calo dei votanti. Per il professore esperto di politologia il tasso d’astensione delle ultime consultazioni non solo non è una sconfitta della politica, ma è anzi il suo esatto opposto: è un bene.

In Italia, spiega D’Alimonte, siamo storicamente abituati a considerare il non voto come un “peccato” sociale. I nostri nonni ricordano e hanno a lungo creduto che il voto fosse non un diritto, ma un dovere, un obbligo. Questo gli era stato insegnato, non per alto senso civico ma, al contrario, per normale interesse di parte. Parte che chiamava a raccolta gli elettori per arginare il pericolo rosso, i comunisti, che all’indomani della nascita della Repubblica potevano contare su un elettorato vasto e fedele.

“Il voto era obbligatorio. C’è questo imprinting che risale al ‘48 – spiega D’Alimonte -quando la Dc, preoccupata della possibile affermazione dei comunisti, enfatizzò il dovere delle urne, specie tra i ceti popolari e i contadini, con la minaccia che il mancato voto sarebbe stato registrato sul certificato di buona condotta. Nei piccoli paesi meridionali i nomi dei non votanti finivano addirittura esposti negli albi comunali”.

In altri paesi poi, compresa quell’Inghilterra che della democrazia è considerata la patria e gli Stati Uniti che dell’efficienza del sistema elettorale sono l’emblema, sono abituati a percentuali di partecipazione al voto da sempre inferiori a quelle italiane. Nelle ultime politiche italiane la partecipazione al voto è stata di 10 punti percentuali più alta che alle ultime politiche inglesi e di 5 punti più alta che in Germania. Mentre il neo sindaco di Roma, eletto in un ballottaggio cui ha preso parte circa il 45% degli aventi diritto, ha visto una partecipazione alla sua elezione più alta di quella che ha portato Michael Bloomberg alla guida di New York. Nella Grande Mela infatti, per la scelta del primo cittadino, si recò alle urne meno del 40% degli elettori. E nessuno parlò di sconfitta della politica o di sindaco delegittimato.

“Un alto livello di partecipazione – spiega D’Alimonte – non è necessariamente sinonimo di buona democrazia. Prenda il sindaco di Londra, Johnson: è stato eletto con un’affluenza del 38 per cento, quello di New York, Bloomberg, per tre volte con una percentuale di votanti al di sotto del 40 per cento”.

Certo, come riconosce anche il politologo intervistato da Repubblica, esiste una soglia oltre cui l’astensione non è più né fisiologica né tantomeno buona, una soglia oltre la quale effettivamente la non partecipazione è una sconfitta della politica e, cosa più importante, della democrazia. Ma siamo ben lontani da quella soglia. “Se andasse a votare solo il 10% bisognerebbe porsi delle domande” dice D’Alimonte. Ma anche alle ultime amministrative la partecipazione non è scesa sotto il 45%.

Spiega poi il politologo quali sono i motivi, vari e diversi, che hanno portato alla crescita dell’astensione dal ’76 ad oggi. Compreso uno che tutto è tranne che una sconfitta della politica, almeno quella “buona”.

La fine delle ideologie, – elenca D’Alimonte – con la scomparsa dei partiti di massa; l’invecchiamento della popolazione, i vecchi non vanno a votare; la crisi economica, che ha alimentato rabbia e protesta, ma allo stesso tempo ha privato la classe politica delle risorse per alimentare il voto di scambio. Le chiedo: la partecipazione frutto del voto di scambio era buona o cattiva? Alle ultime regionali solo il 13% dei lombardi ha espresso una preferenza, contro l’84% dei calabresi. Ora non mi pare che la qualità della democrazia in Lombardia sia minore che in Calabria”.

Ugualmente bassa, verrebbe da dire vedendo i vari scandali che hanno coinvolto dall’ex governatore Formigoni in giù. Tra i motivi dell’aumento dell’astensione quindi anche la fine del voto di scambio. La crisi c’è anche per i candidati e a questi mancano i soldi per comprare i voti così, non più pagati, alcuni decidono di non votare. E se avesse ragione D’Alimonte?