I cinesi…magari ci comprano. E ieri e li trattavamo da fessi

di Riccardo Galli
Pubblicato il 14 Settembre 2011 - 16:12 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Sarà il gigante cinese a salvare le disastrate economie europee con sostanziosi acquisti di titoli di stato? Potrebbe, la liquidità al paese del “capitalismo comunista” non manca di certo. I cinesi non sono più poveri e nemmeno sono mai stati fessi. Anche se ancora fino a ieri a noi italiani piaceva pensarli l’uno e l’altro insieme. Potrebbero esser sì disponibili ad acquistare titoli italiani ridando così un po’ di  fiato al nostro debito, ma i cinesi vogliono anche altro, e come biasimarli? Vogliono acquistare, oltre ai titoli di stato, anche aziende ed infrastrutture, partecipare a grandi proggetti, vogliono insomma investire e mettere a frutto i loro capitali.

Non solo salvarci dal pantano in cui ci siamo infilati, questo, casomai, è una conseguenza accessoria della loro politica economica. Una nemesi storica in cui le fragili economie del vecchio continente potrebbero essere aiutate, se non salvate, dai cosiddetti Brics: Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, le ex colonie che diventano ora ancora di salvezza. Ma le perline e gli specchietti non bastano più. I giganti ora sono loro, e sono loro quindi a dettare regole e condizioni. Con buona pace anche della Lega che solo pochi mesi fa rivendicava la volontà politica di arginare l’orda gialla che invadeva l’Italia.

Testimoni del nuovo corso sono le parole del premier cinese. I paesi sviluppati devono tagliare i deficit e creare posti di lavoro e non sperare soltanto che la Cina salvi l’economia mondiale. Così Wen Jiabao ha risposto alle varie richieste di soccorso dei paesi europei indebitati in occasione del World Economica Forum in corso nella città di Dalian. «I paesi devono innanzitutto mettere ordine in casa propria. Le nazioni sviluppate devono assumere dei provvedimenti fiscali e monetari responsabili. La cosa importante ora è prevenire un ulteriore allargamento della crisi del debito sovrano in Europa», ha detto Wen. Il Premier ha ribadito poi quanto dichiarato lo scorso giugno e cioè che la Cina è pronta a dare un mano all’Europa con degli investimenti locali e che il suo governo allo stesso tempo vuole garantire al paese una crescita economica stabile e ha esortato Unione europea e Stati Uniti ad aprire, come contropartita, i rispettivi mercati.

 

Aiuto dunque, ma a certe condizioni. «Siamo venuti per l’Italia e la Spagna, Paesi dove vale la pena investire, a differenza della Grecia», avrebbero detto i delegati cinesi, guidati dal presidente del fondo sovrano China Investment Corp, Lou Jiwei, impegnati la settimana scorsa in una fitta agenda di incontri con ministeri e istituti italiani. E non solo per discutere dell’acquisto dei nostri titoli di Stato con il ministro Tremonti (a smentirlo è stato lo stesso Palazzo delle Finanze; all’incontro, fra l’altro, non ha partecipato il direttore Generale del Tesoro Vittorio Grilli, come riferisce l’Ansa), ma per valutare investimenti in settori decisamente più materiali, secondo la sua natura di fondo di venture capital: infrastrutture e industrie.

Il quadro è quello di un interscambio che nel 2010 si è attestato a 45 miliardi di dollari e che ad aprile 2011 ha segnato un aumento del 36,6 per cento. Per ora su questo fronte sembrano sfumate le possibili partecipazioni dirette di Cic in Eni ed Enel (proprio di quest’ultima si era parlato anche un anno e mezzo fa, quando sembrava che Pechino volesse rilevarne una quota di minoranza tra il 3 e il 5 per cento). E a spiccare è l’incontro della delegazione cinese con la Cassa Depositi e Prestiti.

L’obiettivo è promuovere la crescita delle nostre Pmi attraverso due fondi di private equity, vale a dire il Fondo italiano di investimento e il nuovo Fondo strategico italiano, che operano per rafforzare patrimonialmente le piccole e medie imprese favorendo anche l’ingresso di capitali esteri spogliati da pericolosi fini speculativi. I cinesi, in cambio, hanno a disposizione una preselezione, firmata dallo Stato italiano, di aziende sane in cui investire. Sul fronte energetico, poi, Cic starebbe valutando la possibilità di finanziare impianti fotovoltaici su piccola e media scala in Sicilia. Dove i cinesi potrebbero finanziare sostanziosamente anche il Ponte di Messina.

Non sono mica fessi i cinesi, i soldi non hanno intenzioni di regalarli, ma di investirli. I fessi siamo noi casomai, come rileva Gian Antonio Stella sul Corriere. “Ricordate cosa fece pochi mesi fa Luca Zaia? Andò di persona, nella veste di governatore del Veneto, a celebrare solennemente a Quinto di Treviso la «riconquista» di un bar che, rilevato da immigrati dello Zhejiang, era stato loro strappato da nuovi padroni veneti. Slogan: «Un gesto politico contro l’invasione “gialla” da tempo denunciata dal Carroccio».

Bene: riconquistata l’osteria, spiega il Financial Times, abbiamo offerto a Pechino «partecipazioni strategiche nell’Eni e nell’Enel». Cioè nelle nostre imprese pubbliche più importanti, in un settore chiave come le materie prime, a livello planetario. Quando si aprì la Seconda Repubblica e Silvio Berlusconi vinse le elezioni nel 1994, secondo il Fondo Monetario Internazionale, l’Italia aveva un Pil quasi doppio rispetto al gigante asiatico.

Poi noi siamo cresciuti in diciassette anni del 94% e loro del 1.048: undici volte più di noi. Tutta colpa del Cavaliere? Neanche per sogno. Le ragioni sono più complesse, il ritardo l’ha accumulato un po’ tutto l’Occidente e del nostro declino, più netto di altri, sono responsabili in tanti, destra, sinistra, sindacati, imprenditori meno coraggiosi di quelli di altri Paesi. C’è però un punto sul quale il nostro premier può sospirare, una responsabilità tutta sua: mentre gli Schröder e le Merkel, i Blair e i Cameron, gli Chirac e i Sarkozy e gli altri leader occidentali andavano e venivano da Pechino cercando di approfittare del boom della nuova superpotenza, lui non ci ha creduto mai davvero.

Al punto che ancora pochi anni fa, come ricorda un’Ansa del 26 febbraio 2005, a un convegno dell’Istituto del commercio estero, suggeriva «agli imprenditori italiani di investire nei Paesi dell’Europa orientale piuttosto che in quelli emergenti come Cina e India» perché quei Paesi «non sono ancora dei mercati in cui noi possiamo pensare di investire quanto vorremmo». Infatti «il tasso di povertà di quei mercati è tale da non consentire, se non a una piccolissima percentuale della popolazione, l’acquisto di prodotti del made in Italy».

I cinesi erano in quel momento al lavoro per costruire in 1236 giorni lo spettacolare ponte di Donghai (32 chilometri a 8 corsie: il ponte in mezzo al mare più lungo del pianeta) e poi 115 chilometri di metropolitana e altre infrastrutture fantastiche per le Olimpiadi di Pechino del 2008 e si erano già lanciati con progetti per 50 miliardi di dollari verso l’Expo di Shanghai del 2010 che avrebbe segnato il loro trionfo. Uno sforzo colossale che dopo cinque anni li avrebbe portati a contare 875 mila nababbi con oltre un milione e mezzo di dollari liquidi e 180 milioni di clienti «affluent». E il Cavaliere invitava a investire nei «mercati più vicini come quelli dei Balcani, dell’Europa orientale, della Russia e della Bielorussia».

Un errore non piccolo, per chi si vanta d’essere «in assoluto il migliore capo di governo di tutti i tempi». Accompagnato da battute disastrose, come quella che gli scappò in un comizio a Napoli: «Leggetevi il Libro nero del comunismo e scoprirete che nella Cina di Mao i comunisti non mangiavano i bambini, ma li bollivano per concimare i campi». Non bastasse ancora, gli rinfacciano i suoi critici, il Cavaliere non è mai andato una sola volta in Cina in visita ufficiale come premier. Non è vero, dirà lui: due volte. Sì, ma solo perché non poteva farne a meno prima come presidente di turno europeo e poi per il vertice dell’Asem, l’Asia-Europe Meeting. Come capo del governo, per un bilaterale Cina-Italia tutto dedicato ai rapporti tra noi e loro, mai.

Neppure per ricevere il testimone del passaggio dell’Expo da Shanghai a Milano, la sua città. Aveva promesso di andarci, diede buca. E all’ultimo momento toccò a Giorgio Napolitano precipitarsi per mettere una pezza che ci evitasse una figuraccia. Per non dire delle polemiche, forse motivate ma certo non utili al dialogo culturale e commerciale, sugli argini invocati da Giulio Tremonti: «I cinesi ci stanno mangiando vivi, dobbiamo mettere dazi e quote». Dei titoloni de La Padania contro l’orda gialla e l’«economia fondata sullo schiavismo»”.

Accanto alla Cina, nella veste di possibili salvatori delle economie europee, Brasile, Russia, India e Sud Africa, cioè i paesi la cui economia in questo momento viaggia meglio a livello planetario. Paesi oggi ricchi di capitali, con l’ovvia e naturale voglia di investirli ma che, come Pechino, non hanno promesso di comprare titoli di stato dei paesi europei, discuteranno però la possibilità di offrire aiuti all’Unione europea, alle prese con la crisi del debito. Lo ha affermato il ministro delle Finanze brasiliano Guido Mantega: «I paesi Brics si riuniranno la prossima settimana a Washington e discuteranno di come poter aiutare l’Unione europea a uscire da questa situazione». Stando poi a fonti brasiliane, i paesi emergenti, avrebbero già avviato negoziati per aumentare le loro riserve di obbligaizoni in euro.

Che i cinesi o gli altri paesi emergenti, ma ormai emersi, comprino quote del debito pubblico italiano è poco più di una speranza. Non sono fessi, dal loro tour europeo, l’impressione che hanno tratto, racconta una fonte che ha assistito ad alcuni di quegli incontri, è che i governi siano totalmente consapevoli della gravità reale della crisi, ma non così le opinioni pubbliche. Anzi, a sentire i cinesi, i governi europei, a cominciare da quello italiano, fanno troppo poco per informare i cittadini della gravità della situazione. Non troppo tranquillizzante, perché per la mentalità cinese è un modo cortese per dire: compreremo i titoli del debito pubblico italiano quando il governo italiano dirà chiaramente ai cittadini qual è la portata e quali sono i rischi di questa crisi. Benvenuti nel nuovo millennio.