Ue, dentro o fuori? Referendum a Londra nel 2015 ma Cameron vuole restare

di Salvatore Gatti
Pubblicato il 23 Gennaio 2013 - 10:54| Aggiornato il 16 Maggio 2022 OLTRE 6 MESI FA

LONDRA – “Il Regno Unito lascerà l’Unione europea se non verranno accettate precise condizioni. La decisione verrà presa nel 2015, in un referendum ad hoc”: così parlò David Cameron, che ha tenuto tutto il pianeta col fiato sospeso, con i continui rinvii del suo discorso, “The Speech”. In realtà, nei mesi scorsi, si temeva che il primo ministro del Regno Unito annunciasse tout court l’uscita dalla Ue, la cosiddetta “Brexit”. Poi ha ammorbidito la sua posizione: non lascia più subito l’Unione europea, come aveva fatto temere. Il suo sogno si è infranto di fronte a una saggia realpolitik. “Restiamo nell’Unione europea”, assicura finalmente,”ma, appunto, a precise condizioni”.

Ma perché voleva staccarsi immediatamente dall’Europa? Chi spingeva per fermare questa follia? Quali sono le condizioni? E qual è lo stato del Regno Unito che ha preso in mano l’11 maggio del 2010 dal suo predecessore, il laburista Gordon Brown, un buon politico ma non dello spessore di Tony Blair? David William Donald Cameron è nato il 9 ottobre del 1966: ha quindi 46 anni. E’ il capo del partito conservatore. Non avendo ottenuto la maggioranza assoluta in Parlamento, nel 2010, ha stretto un’alleanza con i Liberal-Democratici di Nick Clegg. “The right honourable” Cameron (questo è il suo prefisso onorifico) è membro dell’antico clan scozzese dei Cameron che ha sede a Inverness, nelle Highlands. E’ inoltre discendente diretto del re Guglielmo IV d’Inghilterra e per questo è anche lontano parente della regina Elisabetta II.

Sposato con Samantha Gwendoline Sheffield, figlia di Sir Reginald Adrian Berkeley Sheffield, ha avuto quattro figli. Appena eletto primo ministro ha dichiarato che il suo modello politico è Winston Churchill. Non si direbbe proprio, vista la sua politica incerta. La spinta a mettersi in discussione e ad agire, oltre ai suoi valori di right honourable inglese, gliela hanno data prima Fitch e poi Standard&Poor’s. Fitch ha prima messo in guardia il Regno Unito sulla possibile perdita della tripla A: la notizia è arrivata dopo che si è saputo che il Regno aveva perso il controllo del debito e che quest’ultimo sarebbe arrivato in tre o quattro anni vicinissimo al 100 per cento in rapporto al prodotto interno lordo; e Fitch ha anche assegnato al paese un outlook negativo. Inoltre, il 13 dicembre 2012, Standard&Poor’s, pur mantenendo la tripla A, confermando cioè il rating massimo per il debito sovrano del Regno, ha abbassato l’outlook da stabile a negativo temendo un peggioramento rapido dei conti pubblici. E ammonendo che nel 2013 avrebbe sottoposto il rating a una revisione.

Per di più, un sondaggio voluto dalla Fabian Society inglese e da un think tank legato al partito socialdemocratico tedesco, mostra che mentre due over 60 su tre vorrebbero staccarsi dall’Europa, al contrario due terzi dei giovani tra i 18 e i 34 anni voterebbero, in un referendum, a favore della permanenza nell’Unione europea. Dopo queste pesantissime messe in mora, Cameron ha cominciato a riflettere sul suo vecchio sogno: staccarsi formalmente dall’Europa e dar vita a un’isola-ponte tra Vecchio continente e Stati Uniti (e non solo). La centralità del Regno nel mondo implica una presa di distanza dalla vecchia Europa, affaticata dal grave problema dell’Eurozona e dell’euro, moneta artificiale. Il Regno ha invece la sterlina; una Bank of England dai poteri illimitati di stampare denaro (con, però, il rischio forte di una fiammata inflazionistica); la City, uno dei cuori del pianeta e il petrolio del Mare del Nord.

Da solo, senza il fardello dell’Europa e dei suoi regolamenti, riprendendosi i poteri che sono stati trasferiti a suo tempo da Londra a Bruxelles potrebbe decollare. Ma è proprio sano il paese? E’ pronto a una sfida di questa portata.Vediamo: il prodotto interno lordo della “Britain” (come scrive “The Economist”), nel 2012 era in calo, sia pure solo dello 0,1 per cento; la produzione industriale, a novembre, calava del 2,5 per cento; la disoccupazione, a settembre, era del 7,8 per cento; la bilancia dei pagamenti, nel 2012 capitolava: -3,6 per cento; il deficit pubblico era del 7,9 per cento. Non proprio rose e fiori. E da qui voleva partire Cameron per staccarsi dall’Europa, con un referendum da tenersi nel 2015? Certo, per lui sono minor cosa. Assolutamente no, ha tuonato invece, nei mesi scorsi, la potente Cbi, la Confederation of British Industry: “Per Londra è essenziale rimanere nell’Unione europea se non vuole essere relegata ai margini dell’economia e del commercio globali. Il 50 per cento delle nostre esportazioni vanno in Europa”.

La Ue, è vero, ha i suoi problemi strutturali ma questo deve essere uno stimolo per spingerla a fare le riforme, non un pretesto per andarsene “danneggiando l’economia del Regno per inseguire ideologie astratte”. Più pesante ancora è stata la contrarietà degli Stati Uniti, che hanno visto il loro fedele alleato in Europa andarsene via dall’area. Un discorso, quello americano, duro e chiarissimo. Al the honourable Cameron non resta che ammorbidirsi. Ma ponendo delle condizioni. L’appartenenza al mercato unico è utile per Londra: il Regno è per 1,4 per cento agricoltura, per il 24,9 industria e per il 73,7 servizi. Ma in cambio della mancata “secessione” Cameron vuole rinegoziare i termini dell’adesione all’Unione europea. “Resteremo nell’Unione, è nostro interesse”, si lascia sfuggire Cameron, “ma è ora di mettersi intorno a un tavolo per stabilire un rapporto diverso”. Anche perché Cameron non accetterà mai di essere teleguidato da Bruxelles. Anzi, vuole riportare a Londra molti poteri – dall’agricoltura ai servizi finanziari e molti altri ancora- oggi delegati all’Unione europea. Che fare, allora? Redigere un nuovo, diverso Trattato (sperando che la Ue accetti, altrimenti proporrà che il Regno Unito se ne vada). E, poi, sottoporre il nuovo Trattato a un referendum popolare. Nel 2015. “L’Europa sta cambiando”, sostiene, sperando di riuscire a piegare Bruxelles e di avere più poteri e un ruolo maggiore, “e c’è l’opportunità, per noi, di guidare quei cambiamenti e apportarne tali da farci sentire a nostro agio”. Obiettivo ambizioso. Dio salvi il primo ministro. E honi soit qui mal y pense.