Usa: sul fiscal cliff, economia in bilico

di Salvatore Gatti
Pubblicato il 7 Gennaio 2013 - 07:52| Aggiornato il 26 Febbraio 2020 OLTRE 6 MESI FA

“Se il Congresso non concederà agli Usa la capacità di pagare i propri conti in tempo, le conseguenze per l’economia globale saranno catastrofiche” dichiara il presidente americano Barack Obama dalle sue Hawaii, minacciando così i nemici repubblicani. Ai quali rivolge poi un invito: “Dobbiamo lavorare assieme per far crescere la nostra economia e ridurre il deficit e il debito”.

Ma cosa vuole Obama, in concreto? “Un aumento del tetto del debito [al quale il debito è già arrivato] sul quale non farò alcun compromesso” va giù duro il presidente, forte della sua vittoria della fine del 2012 contro i repubblicani sul cosiddetto “fiscal cliff”, il baratro fiscale. Vittoria a metà, però. “L’accordo non è sufficiente, serve un piano completo”, tuona subito il Fondo monetario internazionale. “Servono ulteriori misure per ridurre il deficit; altrimenti il rating potrebbe risentirne negativamente”, cioè gli Stati Uniti potrebbero perdere l’ambita tripla A, già tolta loro da Standard & Poor’s che è anch’essa gelida verso l’accordo sul fiscal cliff: “Il compromesso raggiunto negli Usa fa poco per mettere le finanze pubbliche su una traiettoria più sostenibile nel medio periodo”. “Nulla di cui essere orgogliosi”, chiosa con il suo understatement “The Economist”. Insomma, il trionfalismo di Obama e dei suoi fan che infestano la stampa americana e italiana non è giustificato.

Ma, dietro questo durissimo scontro politico tra Obama e i repubblicani, si nasconde lo stato dell’economia americana che spera di essere sulla strada della ripresa. Ma è davvero così? O è in difficoltà? Vediamo.

I punti di debolezza. Il debito pubblico ufficiale è al 108 per cento del Pil (16 mila miliardi di dollari che aumentano alla velocità di 100 miliardi al mese): insomma Stati Uniti molto italiani. Il deficit annuale è pari al 7 per cento, il doppio dell’Eurozona. Nell’ultima asta i Treasury bonds decennali sono stati piazzato con un tasso dell’1,95 per cento, in leggera crescita. Il prodotto interno lordo, nel 2012 è cresciuto del 2,2 per cento e secondo il Fondo monetario internazionale quest’anno sarà di un deludente 2,1 per cento (anche se secondo altri osservatori potrebbe arrivare al 3, una cifra comunque insufficiente).

La produzione industriale è cresciuta del 2,5. E anche l’occupazione cresce: 155 mila posti di lavoro in più (ma ne erano attesi dagli analisti 160 mila) con una disoccupazione al 7,8 per cento (ma era attesa al 7,7). Dodici milioni di anime perse cercano un’occupazione e ci vorrebbero almeno 300 mila posti di lavoro in più al mese per tornare al livello pre crisi del 2008. Una situazione tutt’altro che rosea. Ma gli aspetti negativi non finiscono qui.

Gli Stati Uniti sopravvivono alla crisi grazie alle iniezioni di liquidità nei mercati da parte della Federal Reserve, la banca centrale, arrivate a 85 miliardi di dollari al mese; ma con ogni probabilità a dicembre di quest’anno potrebbero finire. E allora la crescita americana rallenterebbe. Gli entusiastici boom di Wall Street potrebbero finire. Il vigoroso aumento dei prezzi delle case, più 4,3 per cento a dicembre dello scorso anno, potrebbe nel migliore dei casi interrompersi.

I punti di forza. Non ci sono anche aspetti positivi, nel sistema americano? Si, certo, se no sarebbe già andato in crisi. Il debito è in gran parte nelle mani della Cina (1160 miliardi di dollari di titoli di Stato americani; fonte. “Il sole 24 ore”) e del Giappone (1130) che hanno interesse a non farlo crollare. I 50 stati, quelli forti e quelli deboli, hanno una sola Banca Centrale, la Fed, dotata di poteri molto superiori a quelli dell’europea Bce; hanno un solo presidente, un solo ministro del Tesoro, un solo di tutto (poteri centrali, insomma, con articolazioni, in alcuni casi, statali).

L’America ha il dollaro (debole, per di più), la principale valuta mondiale di riserva e tutti hanno interesse a sostenerlo. Sta ristrutturando le proprie imprese (quelle automobilistiche, ad esempio, ma non solo) e le proprie banche, con pesanti ma necessari tagli degli organici. E viaggia verso l’autosufficienza energetica, entro il 2020, con l’utilizzo massiccio dell’eolico, del fotovoltaico e delle scisti bituminose: addio arabi, non dipenderanno più da loro. C’è poi un altro addio, quello alle due costosissime guerre di Iraq e Afghanistan (che rischiano di essere sostituite da una nuova guerra, contro Iran e nemici di Israele se fosse minacciata la sopravvivenza dello stato ebraico).

Obama e i repubblicani. Insomma, negli Stati Uniti ci sono anche robusti punti di forza. Certo, il cammino per risanarli è lungo. Per questo bisogna iniziare subito. Ma per poter varare un piano completo, come chiede il Fondo monetario, bisogna prima che si chiarisca cosa il presidente Obama potrà fare con l’opposizione dei repubblicani.

“I democratici vogliono che non ci siano cambiamenti in Medicare, la sanità pubblica americana, fiore all’occhiello della prima presidenza Obama, né nella Social Security, il sistema delle pensioni”, sostiene “The Economist”, che prosegue:

“Le soluzioni dei repubblicani comportano spesso tagli non precisati alla spesa pubblica e considerano ogni aumento delle tasse come una forma di socialismo. Ogni partito preferisce attaccare l’altro, rafforzando la polarizzazione e così bloccando ogni progresso”.

Deadline: 28 febbraio. In questo clima è facile immaginare che le prossime trattative sull’aumento indispensabile del tetto sul debito (altrimenti il governo americano non potrebbe pagare più nulla, a cominciare dagli stipendi dei pubblici dipendenti, a partire dal primo marzo), sui tagli alla spesa, sulla riduzione del deficit saranno al calor bianco.

Per fortuna il ministro del Tesoro, Tim Geithner, con una abile ingegneria finanziaria, è riuscito a trovare fondi per altri due mesi. Se non ci sarà accordo sarà il crack? Non ancora: prima scatterà il fiscal cliff al quale si è appena scampati: un misto di forti tagli alla spesa pubblica e robusti aumenti delle tasse. Comunque un incubo per America e mondo. Ma l’accordo forse ci sarà, sarà pessimo come il fiscal cliff e servirà solo a guadagnare tempo, non a risolvere i problemi alla radice. La bancarotta del governo americano non è eliminata per sempre. Una situazione non proprio rosea per gli Stati Uniti e per il mondo.

God bless America.